La parola e l’orrore
Di fronte alle immagini che accompagnano questo articolo, un primo impulso suggerisce di rimanere in silenzio. Tacere, non scrivere nulla, lasciare che sia l’orrore muto ed esplicito di queste fotografie a parlare al lettore. Preferiamo però porre un filtro a queste immagini (per questo le vedrete con un effetto disturbato), crudissime, che introducono un sospetto da tribunale per i crimini di guerra.
La parola deve farsi strada e tentare di dare un senso all’orrore. Quelle che vedete non sono foto di scena di un film di Dario Argento, né statue di cera di uno di quei macabri musei della tortura che si possono trovare in alcune città. Quei corpi martoriati sono esseri umani, erano esseri umani. Si chiamavano Sitki Tanriverdi, Nurettin Tas, Idris Sezgin, almeno secondo quanto ci rivela la nostra fonte. Erano guerriglieri curdi: militanti del Pkk, il movimento indipendentista che, dagli anni Ottanta, combatte contro il Governo turco in quell’Anatolia sud-orientale che è proibito chiamare Kurdistan. Soldati irregolari di una guerra di cui si parla poco e che i media definiscono a bassa intensità. Ma le immagini di queste pagine ci ricordano che questa guerra esiste e produce vittime. Qualunque livello di intensità le si voglia attribuire.
Abbiamo avuto queste immagini da una onlus italiana, che lo scorso agosto ha partecipato a una delegazione di osservatori nel Kurdistan turco e che le ha, a sua volta, ricevute da un’associazione di turchi e curdi per i diritti umani. Quest’ultima ha chiesto di rimanere anonima, quindi ci limiteremo a chiamarla l’associazione. Vi mostriamo solo le foto relative a due dei guerriglieri uccisi, perché quelle del terzo corpo sono troppo cruente per essere pubblicate.
Una prima ricostruzione
La ricostruzione dei fatti data dall’associazione è scarna. Secondo la sua versione, i tre guerriglieri sono stati uccisi ai primi di luglio, nel corso di una serie di combattimenti con l’esercito sulle montagne intorno a Semdinli, un piccolo centro urbano del Kurdistan turco.
Il 5 luglio i soldati hanno trovato i corpi e li hanno consegnati all’obitorio dell’ospedale pubblico della città. A quel punto è intervenuta l’associazione. In alcune immagini vediamo quelli che ci vengono descritti come membri dell’associazione mentre lavano i cadaveri in un fiume nei pressi di Hakkari. In altre foto, i corpi vengono avvolti nei lenzuoli e chiusi in semplici bare di legno. L’associazione spiega che saranno poi riportati all’obitorio e restituiti alle famiglie.
E fin qui non sarebbe nulla di nuovo. Ordinaria amministrazione di un conflitto che da troppi anni si ripete sempre uguale, con morti e feriti da entrambe le parti e atrocità che si sommano ad atrocità.
Ma sono le condizioni in cui sono ridotti i corpi che ci obbligano a porci delle domande.
Intanto non è chiaro perché il volto di uno dei tre sia così orrendamente deformato. È solo un avanzato stato di decomposizione?
E cosa sono le macchie che in più punti coprono il corpo di un altro cadavere, quello che i volontari dell’associazione espongono agli scatti del fotografo come in una cruda versione della Pietà? Per quanto le foto possono mostrare, sembra che la pelle sia stata portata via. O forse è cotta, ustionata?
L’associazione suggerisce che si tratti della prova dell’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito turco. Non sono un esperto e non sono in grado di confermare una simile affermazione. Tuttavia, c’è la possibilità che non siano dichiarazioni avventate.
Armi chimiche contro il Pkk: il reportage di Der Spiegel
Lo scorso agosto, il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato un articolo in cui racconta di essere entrato in possesso di fotografie che raffigurano otto cadaveri di combattenti del Pkk. Il settimanale ha deciso di non pubblicare le immagini, ma si limita a descrivere i corpi orrendamente ustionati e mutilati.
I giornalisti avevano ricevuto gli scatti da una delegazione di osservatori tedeschi per i diritti umani, che li aveva a sua volta avuti a marzo da un’associazione di attivisti turchi e curdi. Le foto sono state giudicate autentiche da un esperto di falsificazioni fotografiche. Un rapporto forense dell’Ospedale dell’Università di Amburgo ha inoltre affermato che è molto probabile che gli otto curdi siano morti a causa dell’uso di sostanze chimiche.
L’articolo di Der Spiegel ha fatto scoppiare un vero e proprio caso in Germania, con esponenti politici, parlamentari ed esperti di diritti umani a chiedere un’inchiesta indipendente per investigare sull’eventuale utilizzo di armi chimiche nella lotta contro il Pkk. Secondo quanto citato dal quotidiano berlinese Die Tageszeitung, il Ministero degli Esteri turco ha respinto le accuse. Nel 1997, infatti, la Turchia ha firmato la Convenzione sulle armi chimiche e le sue forze armate non possiedono ufficialmente armi chimiche o biologiche.
Der Spiegel riporta come i sospetti che Ankara utilizzi questo tipo di armi contro i guerriglieri curdi si siano intensificati negli ultimi anni. Anche il Bdp, partito filocurdo che siede nel parlamento turco (con qualche forzatura potremmo definirlo l’omologo curdo del Sinn Fein irlandese) sostiene che l’esercito utilizzi armi chimiche contro i guerriglieri. Il Bdp afferma di aver chiesto di poter avere autopsie condotte da medici indipendenti, ma che le autorità avrebbero sino ad ora negato le autorizzazioni.
Le foto di cui siamo in possesso e quelle di cui parla il settimanale tedesco non sono le stesse. Diverso il periodo a cui si riferiscono e diverso il numero di guerriglieri morti. Ma le similitudini sono molte: dalle modalità di restituzione dei corpi al modo in cui un’associazione per i diritti umani riesce a fare avere gli scatti a delegazioni e giornalisti europei.
Rimane da appurare se anche le foto in nostro possesso raffigurano uomini uccisi da sostanze chimiche. L’unico modo per saperlo con certezza è sottoporle a una perizia analoga a quelle effettuate in Germania. Se il risultato dovesse essere positivo, l’utilizzo segreto di armi chimiche da parte dell’esercito turco cesserebbe di essere un semplice sospetto.
Qualunque cosa li abbia uccisi, i corpi delle foto che accompagnano questo articolo raccontano che nel Kurdistan turco, Anatolia sud-orientale o comunque si voglia chiamare questo pezzo di terra è in corso una guerra. Una guerra che, negli ultimi mesi, ha registrato una progressiva escalation.
Kurdistan turco e Nord Iraq: un’estate di guerra
L’estate 2010 è stata particolarmente calda nel Kurdistan turco, specialmente dopo il 1 giugno, scadenza della tregua unilaterale proclamata dal Pkk. In sole tre settimane a cavallo tra maggio e giugno, si sono susseguiti ripetuti attacchi dei guerriglieri che hanno causato almeno dodici morti tra i militari turchi. Se si considera anche il periodo precedente la fine della tregua, le autorità militari turche parlano di un bilancio di più di 50 militari e circa 130 guerriglieri uccisi dall’inizio di marzo. Le incursioni dei guerriglieri sono favorite dal fatto che, da anni, il Pkk ha installato proprie basi e campi d’addestramento nei territori montuosi del nord dell’Iraq, territorio controllato stabilmente da curdi iracheni che tollerano la presenza dei propri “cugini”.
L’episodio che ha fatto perdere la pazienza ad Ankara è stato un attacco sferrato dai guerriglieri il 16 giugno contro una postazione militare lungo il confine con l’Iraq. Dopo uno scontro durato diverse ore, i militari hanno deciso di contrattaccare sconfinando in territorio iracheno. Le autorità militari hanno reso noto alle agenzie di stampa internazionali di aver inviato per circa due/tre chilometri oltre il confine tre divisioni di truppe d’assalto e una brigata delle forze speciali.
Successivamente, l’aviazione turca ha effettuato alcuni bombardamenti su postazioni del Pkk in Iraq del nord. L’esercito ha annunciato di essere pronto a inviare altri uomini, ma il 17 giugno ha fatto retromarcia e ritirato tutte le truppe dal territorio iracheno. E’ stata un’operazione lampo, ancora più breve della massiccia invasione di terra del Nord Iraq che le truppe di Ankara avevano condotto nel 2008, sempre per stanare i guerriglieri del Pkk. È molto probabile che, come allora, la Turchia abbia subito pressioni da parte degli Stati Uniti per non compromettere la già fragile stabilità della regione.
In ogni caso, l’escalation del conflitto è evidente. I racconti degli osservatori internazionali che, nel corso dell’estate, sono stati nel Kurdistan turco confermano un crescente clima di tensione e guerra civile. L’esercito turco ha intenzione di dare la caccia ai guerriglieri pattugliando con mezzi più sofisticati i territori montuosi lungo il confine con il Nord Iraq e, per farlo, intende avvalersi della cooperazione con gli Stati Uniti e altri Paesi esteri che possano fornire la tecnologia necessaria.
Droni israeliani ed elicotteri italiani
Il 21 giugno, il generale Ilker Basbug, un alto ufficiale dell’esercito turco, ha reso noto che, a breve, le sue truppe avrebbero iniziato a utilizzare droni “Heron” di fabbricazione israeliana per missioni di sorveglianza e intelligence nelle zone montuose di confine con il Nord Iraq. Mentre scriviamo questo articolo, i droni dovrebbero già trovarsi nello spazio aereo iracheno in coordinamento con le forze armate Usa per pattugliare le zone montuose di confine e raccogliere informazioni sulle postazioni del Pkk.
La notizia è stata riportata dalla Cnn e ha suscitato una certa sorpresa: non tanto per il contenuto delle dichiarazioni del generale, quanto per il fatto che erano passate appena tre settimane dall’assalto israeliano alla Freedom Flotilla, che aveva causato un’inedita rottura diplomatica tra Ankara e Tel Aviv.
Tutti avevano ancora nelle orecchie le parole del primo ministro turco Erdogan che accusava Israele di “terrorismo di stato” e affermava che “niente sarebbe stato più come prima” nelle relazioni tra i due Paesi.
Tuttavia, la frattura tra i due Paesi, da sempre in ottime relazioni, non doveva essere così grave. La ragion di Stato e la realpolitik hanno sempre la meglio sui megafoni della propaganda e, soprattutto, hanno il vantaggio di muoversi facendo meno rumore. A dispetto della recente propaganda, i legami della Turchia con l’industria bellica israeliana nel campo della tecnologia avanzata sono ancora molto forti.
Per vincere una “guerra asimmetrica” come quella con il Pkk, la Turchia ha bisogno di mezzi adeguati quali droni, sistemi di sorveglianza, satelliti, ed elicotteri d’attacco: tutte cose che non produce o, nel caso degli elicotteri, ha iniziato a produrre da poco in partnership con l’industria bellica italiana.
Nel settembre 2007, l’italo-britannica Agusta Westland (gruppo Finmeccanica) e la turca TAI (Turkish Aviation Industries) hanno siglato un accordo che porterà alla produzione in serie – direttamente in Turchia – del T129 Atak: un nuovo modello di elicottero d’attacco e ricognizione tattica basato in parte sulla piattaforma dell’italiano A129, meglio conosciuto come “Mangusta”.
L’accordo si inserisce all’interno del programma di partenariato Atak, sviluppato per il Comando delle forze di terra turco: una commessa di cinquanta elicotteri più ulteriori quarantuno opzionali. Il primo fornitore è la già citata TAI, mentre subappaltatori sono Agusta Westland e Aselsan, una delle principali aziende turche nel campo delle tecnologie per la difesa.
Il programma è partito ufficialmente nel 2008 e, nel settembre 2009, il prototipo P1 ha compiuto un primo volo sperimentale negli stabilimenti Agusta Westland di Vergiate, in Italia. L’elaborazione del nuovo velivolo starebbe ora procedendo nel rispetto della tabella di marcia stabilita. L’assemblaggio finale sarà realizzato in Turchia; la consegna e l’accettazione del velivolo sono previste per il 2013.
Secondo il comunicato stampa congiunto delle due aziende, il programma T129 rappresenta un nuovo impegno tra AgustaWestland e TAI, con l’obiettivo di sviluppare in Turchia una moderna industria elicotteristica che possa rispondere alle future necessità delle forze armate turche e, nel contempo, accrescere le potenzialità tecnologiche dell’industria militare turca. Con il programma T129 Agusta Westland sta trasferendo il proprio know-how ai suoi partner industriali turchi, con lo scopo dichiarato di rendere il T129 l’elicottero più avanzato nella sua classe, sia per soddisfare le necessità delle Forze di terra turche, sia per renderlo appetibile per il mercato internazionale, in cui il comunicato auspica che l’industria turca possa giocare un ruolo primario.
Il nuovo elicottero sarà dotato di attrezzature tecnologiche e supporti logistici hardware e software che saranno sviluppati in Turchia. Tra gli utilizzi del velivolo, figurano l’attacco, la ricognizione e scorta armata, la balistica di precisione e la soppressione delle difese aeree nemiche. Sicuramente può essere un ottimo strumento per una guerra asimmetrica contro un nemico arroccato su montagne impervie e difficilmente accessibili.
Un referendum e una tregua: spiragli di pace?
Abbiamo quindi uno scenario di guerra in cui confluiscono vari elementi. Primo: l’esercito turco sta procedendo ad accrescere il proprio potenziale bellico, acquisendo tecnologia da Paesi esteri e iniziando a svilupparla autonomamente. Secondo: negli ultimi mesi ha preso piede il sospetto che l’esercito turco conduca la guerra con mezzi non convenzionali come armi chimiche. E’ ancora da dimostrare appieno, ma è giudicato probabile da diverse fonti. Il terzo elemento è rappresentato dall’escalation del conflitto registrata negli ultimi mesi, con il rischio di un’ulteriore destabilizzazione a livello regionale. Tutte cose che non fanno ben sperare.
Tuttavia, in questo scenario si è da poco introdotto un elemento di novità che potrebbe portare a un’evoluzione positiva della situazione.
Lo scorso 12 settembre, la maggioranza dei cittadini turchi ha votato sì al referendum per modificare una serie di norme della Costituzione varata dai militari dopo il colpo di Stato del 1980. Tra le modifiche approvate, rientra anche la possibilità di processare gli ufficiali responsabili del golpe. Grazie a questo ed altri emendamenti costituzionali, i militari perdono, di fatto, lo status di casta intoccabile di cui hanno, sino ad oggi, goduto e il loro potere di condizionare gli equilibri politici del Paese risulta notevolmente ridimensionato.
Pochi giorni fa, il 20 settembre, il Pkk ha annunciato una proroga di una settimana del nuovo cessate il fuoco unilaterale che aveva indetto ad agosto. E’ ancora presto per fare previsioni e mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ma è possibile che, se i militari avranno meno peso nel Paese, ci potrà essere maggiore spazio per nuove trattative tra il Governo turco e i guerriglieri: lo spazio per una soluzione politica, in cui le armi possano tacere. Non sarà facile, ma può accadere.
Perché accada, turchi e curdi non devono essere lasciati soli. E’ fondamentale il ruolo di vigilanza e pressione diplomatica di istituzioni internazionali come l’Unione Europea, alla cui porta la Turchia attende a lungo di entrare. Se Ankara sarà aiutata e incoraggiata a diventare una democrazia compiuta, forse la guerra potrà essere superata.
E potremmo, forse, non dover più vedere foto come quelle che accompagnano questo articolo.