Non siamo in Islanda, dove esiste un partito politico di sole donne dichiaratamente femminista, né il Ruanda, dove le elette sono il 50%. In Italia non ci sono pericolose attiviste che vogliono prendere il potere, e di femministe dichiarate ne sono state elette, da quando esiste il suffragio universale, una decina dal 1946, a volere essere di manica larga.
Alma Sabatini, del cui lavoro si sa poco o nulla, negli anni Ottanta indicò nel suo libro “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” una semplice ed efficace strada da percorrere, in particolare nella scuola e nelle agenzie formative, per debellare gli stereotipi sessisti a partire dal linguaggio, proponendo una ovvietà: cominciamo a parlare nominando il femminile e il maschile nel discorso di ogni giorno, basta con il ‘neutro’ (che non esiste in italiano) e cominciamo a dire che nella lingua del Belpaese chi dice uomo, e poi aggiunge ‘inteso come genere umano’ in realtà sceglie di usare il maschile che ingloba e annulla il femminile (i diritti dell’uomo, uomo come genere umano, e si potrebbe continuare), quando semplicemente potrebbe invece scegliere di dire uomo e donna, genere umano, persone e così via.
In chiave positiva e inclusiva Alma Sabatini pensava che se ad una generazione si inizia a parlare di mediche, avvocate, assessore, sindache, architette, fornaie, vigilesse, poete e amministratrici la successiva ondata di giovani potrà ereditare anche un diverso immaginario, nel quale le donne, e non solo uomini, abbiano cittadinanza e opportunità nella società.
Chi si occupa di differenza di genere sa bene quanto sia difficile che questa inoffensiva proposta sia accolta e praticata. Le obiezioni variano, sulla stessa linea e con diverse sfumature, dal blando “ci sono cose più importanti e urgenti del linguaggio” al più corposo “che cosa cambia se dico donne, bambine, lavoratrici, tanto si capisce che sono incluse anche se uso il maschile”. Queste risposte, è noto, vengono da uomini di sinistra come di destra, e anche da molte donne, spesso infastidite dal fatto che segnare la loro differenza sia interpretato come un segno di debolezza.
Qualche giorno fa una donna autorevole e affermata nel suo lavoro mi diceva che per lei è senza senso nominarsi come donna perché nella sua vita non si è mai sentita discriminata. Ma davvero bisogna nominarsi come donne (quando donne si è) solo nel momento di difficoltà, e poi quando si è vincenti scomparire come genere? La storia e l’esperienza non ci hanno forse insegnato che senza nome non si esiste, che solo chi ha accesso alla parola e alla identità ha pari dignità, che è proprio cancellando il femminile che si opera la prima grande ingiustizia e violenza su metà dell’umanità, a danno quindi di tutta l’umanità stessa?
Mentre la strada è evidentemente ancora ben lunga ecco un piccolo significativo segno di cambiamento: al Consiglio Comunale di Imola, su stimolo della sua presidente, Paola Lanzon (che non a caso è una donna, ed è pure una dirigente sportiva della Uisp), è stato ufficialmente riconosciuto il linguaggio sessuato nel regolamento del Comune.
Ecco il testo sottoscritto in Consiglio Comunale qualche giorno fa:
Per sottolineare l’approdo chiaro e culturalmente riconosciuto della soggettività femminile anche all’interno delle Istituzioni e ricordando quindi, citando Rosa Luxemburg, che ‘chiamare le cose con il loro nome è un gesto rivoluzionario’, aggiungere al testo della delibera: si dà mandato alla Segreteria Generale di tener conto e di esplicitare nella riscrittura dell’intero Regolamento la differenza di genere, attuando in questo modo la sessuazione del linguaggio.
Sono, certo, solo parole. Però che bello pensare che un pezzetto del lavoro di Alma sia arrivato fin qui, e che oggi un luogo istituzionale ne abbia fatto tesoro.
Monica Lanfranco è giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto. Ha fondato il trimestrale di cultura di genere MAREA. Ha collaborato con Radio Rai International, con il settimanale Carta, il quotidiano Liberazione, con Arcoiris Tv. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici). Insegna Teoria e Tecnica dei nuovi media a Parma.
Il suo primo libro è stato nel 1990 "Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi". Nel 2003 ha scritto assieme a Maria G. Di Rienzo "Donne disarmanti - storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi" e nel 2005 è uscito il volume "Senza Velo - donne nell’Islam contro l’integralismo". Nel 2007 ha prodotto e curato il film sulla vita e l’esperienza politica della senatrice Lidia Menapace dal titolo "Ci dichiariamo nipoti politici". Nel 2009 è uscito "Letteralmente femminista – perché è ancora necessario il movimento delle donne" (Edizioni Punto Rosso).