Giuseppe aveva ricevuto una comunicazione dalla cooperativa dove lavorava: “Da sabato prossimo sta’ a casa fino a quando ti richiameremo”. Giuseppe era un emigrato palestinese, aveva ottenuto un permesso di lavoro perché aveva chiesto asilo politico; al suo paese, la Palestina, era inviso agli occupanti, perché non accettava di lavorare al muro, e alle autorità palestinesi, perché non si piegava alle porcherie che facevano con i soldi degli aiuti umanitari. Era venuto in Italia con la moglie giovanissima, Myriam Maria, aveva trovato lavoro in una cooperativa dove aveva continuato a fare il carpentiere, il suo mestiere originario; lavorava nei cantieri, era benvoluto, non contava le ore di lavoro che faceva.
Quando ricevette la comunicazione, lo prese la disperazione, sua moglie era incinta e prossima al parto, non poteva restare senza lavoro. Telefonò a tutti quelli che conosceva in Italia, volontari e parenti, ma ricevette solo vaghe promesse. Poi, improvvisamente, gli arrivò la telefonata di un lontano cugino: “Vieni a Mede, c’è un posto di lavoro nel mio cantiere, starete con noi per un po’”.
Giuseppe sarebbe partito subito da solo, ma Maria gli disse: “Non vai da solo, vengo anch’io”.
“Ma come fai, sei alla fine del tempo, il figlio sta per arrivare…”
“Se tu vai, vengo anch’io” ripeté con ostinazione e Giuseppe sapeva quanto era ostinata. Presero un treno nel pomeriggio di sabato, sarebbero arrivati dopo due ore in una stazione periferica di Milano, da dove partiva un treno ogni ora per Meda. Il treno si fermò a Milano su un binario laterale, era notte inoltrata.
“Giuseppe”, disse Maria, non so se posso scendere”.
“Cos’hai?”
“Ho paura che siamo arrivati alla fine, sta per nascere”.
Giuseppe si allarmò, la fece accomodare tra due file di sedili, disse: “Adesso stai buona, faccio venire una ambulanza”.
“No, stammi vicino, voglio te, non l’ambulanza”.
Si affacciò una vecchia nonna, reggeva un sacco. Tutte le sere saliva su quel treno per passarvi la notte. La chiamavano la barbona di Rogoredo, capì alla prima occhiata cosa stava succedendo, e disse: “Tu appoggiati a questo sacco”, e glielo mise dietro la schiena dopo aver sfilato un asciugamano. “Tu, disse a Giuseppe, non stare lì come un scemo. Vai in tualet, prendi un rotolo di carta sopra il lavandino, e tu respira profondo, tosa, su, più profondo, brava, così”.
Si affacciò una ferroviera, alta, con un’occhiata si rese conto della situazione, buttò il cappello su un sedile e disse: “Chiamo l’Augusta, faceva l’ostetrica”. “Anca mì”, disse la barbona. “Allora siamo a posto. Laviamoci le mani”.
Giuseppe era tornato, prese il viso di Maria tra le mani e lo tenne per tutto il parto, mentre la ferroviera e la barbona si davano da fare per far nascere il bambino. Il bambino cominciò a gridare tra le mani della barbona, “È un bel maschietto, papà fortunato”.
La cosa non era passata inosservata, un paio di passeggeri era salito sul treno, seguito da un ambulante che aveva ancora la cassetta con le sue mercanzie. Arrivò anche un capotreno, che si indirizzò alla ferroviera: “Ma da quando il Mortara-Milano è diventato una sala parto?”
“Taci, Pietro, portaci in po’ d’acqua minerale, ma non gassata, renditi utile”. L’ambulante, nero come il carbone, sfilò un braccialetto di perline dalla sua cassetta e lo mise al polso della mamma: “Questo porta fortuna, non te lo togliere neanche se ti lavi”.
Poi ne prese un altro: “Questo è per bambino, qual è suo nome?”.
“Gesù”, sussurrò Maria, “Yoshua, grazie”.
“Adesso telefono alla Croce Rossa che mandi un’ambulanza”, disse Pietro il capotreno che voleva fare il burbero ma non ci riusciva.
“No”, disse Maria, “aspetta un po’, è bello stare qui, tra gli amici. Se vado in ospedale adesso, vado tra estranei; voglio rimanere con voi, che siete amici”.
La ferroviera e Pietro, il venditore nero, il paio di passeggeri e la barbona si sedettero sui sedili, mentre il venditore intonava una nenia del suo paese. I passeggeri si dissero tra loro: “È una cosa incredibile, siamo nel 2010, cosa possiamo fare per loro, facciamo una colletta?”
E tutti misero una mano in tasca, anche la barbona che aveva solo un euro per il cappuccino con cui avrebbe incominciato la giornata, il mattino dopo; e il Gesù di Rogoredo, quando, il mattino dopo sarebbe andato in ospedale, avrebbe forse avuto una tutina azzurra, il dono di quelli che avevano partecipato a un evento straordinario.
Il capotreno Pietro discese dal treno. Aveva una strana luce negli occhi, un filo di esaltazione lo pervadeva. Aveva perfino un groppo in gola. Entrò nel bar della stazione, c’erano poche persone, qualche viaggiatore ritardatario, due operai in tuta col nome di una cooperativa per le pulizie, tre agenti della polizia ferroviaria. Giravano caffè, alcuni corretti con un goccio di grappa. Pietro cominciò con un: “Pensate…” Poi si fermò, vide i visi attenti che cercavano di pensare quello che Pietro non aveva ancora detto: “Non ci crederete, ma stasera sul sesto binario, quello dove domattina alle sei parte, il Mortara, è successo…”
“Cosa?” chiese il barista. E Pietro narrò cosa aveva visto, e il bar si illuminò di una luce splendente, che rendeva tutto nuovo. “E se non ci credete andate, ma non disturbate, il bambino dorme e la madre è stanca”. E quando uscì, una lama di luce uscì dal bar e raggiunse la vettura del Milano Mortara.
(Anche Giuseppe dalla città di Nazareth salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme […]. Maria diede alla luce il suo figlio primogenito […]. Un angelo del Signore si presentò ai pastori e li avvolse di luce. “Vi annuncio una grande gioia, è nato per voi il salvatore […]”. Luca, 2 4-11)
Piergiorgio Mora, una vita da venditore di tessuti, oggi impegnato nella comunità di Sant’Angelo di Milano, comunità che realizza progetti di solidarietà in Salvador, Brasile, Africa. Ha scritto il racconto assieme ai ragazzini che preparano la cresima a Cassina Amalia. Sono: Giada M, Giada A, Chiara, Elena, Alessia, Noemi, Stefano, Davide, Umberto, Eduardo, Andrea, Nicolò.