Bogotà (Colombia) – “Per tre anni nella giungla, in catene innocente, circondata da folli, utopisti del niente”, cantava Francesco Guccini, traducendo una canzone dedicata a Ingrid Bentacourt da Renaud Sechan nel 2005. Poi gli anni son diventati sei e Ingrid si è riappropriata della sua libertà, che nell’esilio del sequestro accudiva gelosamente dentro i confini della mente. Là, nella giungla, circondata dalla natura più selvaggia, incontaminata, lontano da ogni simulacro urbano, da ogni criterio umano, là dove il pensiero può vagare all’infinito senza vincolo alcuno, Ingrid si è difesa dalle privazioni e dalle violazioni, barricandosi dietro le uniche mura che potevano proteggerla, nel suo io più profondo, fra idee e immaginazione.
Come disse una volta da Fazio, ogni volta che i guerriglieri delle Farc la legavano e la maltrattavano, ogni volta che calpestavano la sua dignità, Ingrid si rifugiava là, nella mente, e chissà forse immaginava i suoi figli un po’ più adulti, ricordava il volto anziano di suo padre, morto un mese esatto dopo il suo rapimento, oppure fantasticava dei colori della Senna in primavera. Non sono stati giorni né mesi, sono stati anni, trascorsi distanti dai propri rimandi quotidiani del sé e, durante tutto quel tempo funereo, Ingrid avrà finito per dimenticare il suo stesso odore.
Da quell’estatico 2 luglio 2008, giorno della “Operazione Jaque”, il piano d’azione eseguito dal governo colombiano per liberarla dai suoi sequestratori, sono passati poco più di due anni e fra le mani Ingrid si è ritrovata un’altra vita. Non vive più in Colombia, dov’è tornata solo due volte, non è più sposata al suo secondo marito, ha conosciuti presidenti, ha ricevuto riconoscimenti e ha incontrato personalmente un papa diverso da quello che viveva ancora nella sua memoria. Ha fatto cose nuove e ha cenato molte volte con i suoi figli, “Melanie ormai donna e Lorenzo così alto”. È diventata un simbolo dei diritti umani, della lotta in difesa delle vittime dei sequestri. Nel mondo e in Colombia.
Per quasi un anno il candidato presidente Santos (oggi presidente) tremava guardando i sondaggi: se Ingrid si fosse candidata la presidentessa sarebbe stata lei. Il tempo passa e nel marzo 2010, la storica rivista liberale colombiana, La Semana, ha pubblicato un sondaggio che dava Ingrid al 31 per cento dei gradimenti nel caso corresse per la presidenza. Ma il 9 luglio, a una settimana dal suo secondo ritorno in patria, in occasione dell’anniversario dell’Operazione Jacque, Ingrid Betancourt e la sua famiglia hanno presentato un’azione di conciliazione contro il ministero della difesa colombiana, accusando lo Stato di non aver fornito una protezione adeguata e contestando le informazioni diffuse sulle condizioni che portarono al sequestro. L’avvocato della Betancourt ha reclamato un indennizzo di 6 milioni e mezzo di dollari e ha sottolineato le finalità simboliche della richiesta, volta a suscitare una costruttiva riflessione del governo colombiano sui meccanismi di protezione previsti per i cittadini potenzialmente a rischio attentati o rapimenti. La Colombia ha reagito all’unisono, sdegnata, e l’ex senatrice è tornata rapidamente sui suoi passi, ritirando la causa.
Oggi i colombiani non amano più Ingrid, molti di loro la definiscono con epiteti spiacevoli e molti, quasi tutti, la considerano ingrata. Secondo uno dei principali quotidiani del paese, El Tempo (tra i proprietari il presidente Santos) l’80 per cento dei colombiani ha ora un’opinione negativa nei suoi confronti. «È irriconoscente – commenta con fervore una signora incontrata in un cafè di Bogotà – il presidente Uribe si è giocato tutta la sua credibilità per salvarla e questo è il modo di ripagare il governo?»
In realtà, Ingrid biasima l’amministrazione Pastrana, in carica al tempo del rapimento suo e della sua collega di partito, Clara Rojas, candidata all’epoca alla vicepresidenza. Inoltre, accusa l’ex comandante della Quarta divisione dell’esercito, il generale Arcesio Barrero, di averle dato, all’epoca, sufficienti garanzie di sicurezza. Ma il governo esibisce le carte in suo possesso contrapponendole alla tesi della Betancourt. Infatti, alla vigilia del 23 febbraio 2002, Ingrid firmò alcuni documenti nei quali si assumeva tutta la responsabilità di un eventuale sconfinamento nelle aree del paese controllate dalle Farc, respingendo le raccomandazioni della forza pubblica e delle altre autorità, che la invitavano a desistere dal recarsi al municipio di San Vicente del Caguán. Anche l’ultima telefonata del presidente Pastrana che la supplicava di non andare è caduta nel vuoto.
Il rancore dei colombiani li induce a dimenticare i motivi e il coraggio che condussero la Betancourt verso il suo crudele destino, soltanto tre giorni dopo la rottura del dialogo fra il presidente Pastrana e le Farc. L’epicentro del fallimento del percorso di pace era rappresentato proprio da San Vicente del Caguán, il cuore delle terre di distensione affidate al controllo delle Farc. Ingrid voleva portare la sua voce in quelle terre abbandonate, la voce di un cambiamento, di una presenza politica nuova, diversa dal passato. Il suo era un gesto impaziente, come ammise lei stessa il giorno del rilascio, ma un gesto alto, simbolico. Ingrid sfidò la guerriglia, il cui capo, Manuel Marulanda Vélez, aveva avvertito i candidati alla presidenza di non varcare i confini delle zone da loro occupate, accusandoli di meri fini elettorali.
«Provavamo per lei un sentimento di compassione – mi spiega Carlos, un parrucchiere che esercita nei pressi di Parque 93, piazza di ristoranti e bar molto in voga nella capitale colombiana – e di vicinanza profonda, in quanto rappresentava il simbolo dell’orrore che condanna il nostro paese da molti anni. Ora, però, ci sentiamo traditi».
Ma cosa provava il popolo colombiano per la giovane Ingrid Betancourt? Non per la donna dispersa nella selva oscura, nelle mani di carcerieri dediti a una guerra un tempo ideologica e ora confusa da collusioni con il narcotraffico. E nemmeno per la ragazza educata a Parigi, figlia di un ex ministro, poi diplomatico e di una ex regina di bellezza, poi senatrice, Ingrid che trascorreva i pomeriggi a parlare con Botero, Garcia Marquez e lo “zio” Pablo, Neruda. Cosa provava per quella donna che dopo il brutale assassinio del Kennedy colombiano, Luis Carlos Galan, spirato tra le braccia della madre di Ingrid, decise di tornare in patria e farsi largo con una campagna irriverente, brandendo preservativi contro la corruzione diffusa dell’oligarchia dominante?
È vero, Ingrid non venne dai bassifondi, non passò per una trafila di piccoli passi e tanti schiaffi, ma, forte dell’appoggio familiare, si impose subito sulle scene e nel 1994, quattro anni dopo il suo sbarco a Bogotà, faceva già il suo ingresso alla camera dei rappresentanti. Tuttavia, Ingrid scelse allora la strada più appariscente ma anche la più accidentata, irta di pericoli: prima, guidò la sommossa contro il presidente in carica, Ernesto Samper, accusato di aver condotto la campagna elettorale con i finanziamenti sporchi del potente cartello della droga di Cali, e poi allargò il campo dei nemici attaccando tutto il congresso, reo di malaffare e clientelismi. Correva il 1998, Ingrid proponeva una riforma che tutelasse il voto dei cittadini, garantendo un parlamento pulito, e il futuro presidente Pastrana pensò bene di allearsi con lei. Non venne smentito. Ingrid Betancourt fu eletta al senato con il maggior numero di voti. Poi Pastrana le voltò le spalle e Ingrid continuò la sua lotta di grillo parlante.
Oggi i colombiani fanno finta di non ricordare e insinuano il passato di dubbi. Come mi racconta Alvaro, un pittore e architetto che per lavoro fa la spola dal suo paese agli Stati Uniti, qui la maggioranza non vota e chi vota, spesso, lo fa in cambio di poche migliaia di pesos. Alle ultime elezioni l’astensione ha toccato il 57 per cento, una cifra altissima, che indica una profonda e sfiduciata distanza dalla politica. E Alvaro è convinto che la richiesta di indennizzo milionario allo stato riveli il vero volto della Betancourt. Non contano più le battaglie di Ingrid per una politica pulita, le minacce che la costrinsero a separarsi dai figli mandandoli lontano, dall’ex marito, in Nuova Zelanda, non contano più i sei anni “in catene innocente, circondata da folli, utopisti del niente”. Perché Ingrid, oggi, ha commesso un errore, dimenticandosi che la sua gente, un tempo anteposta ai suoi figli e alla sua libertà, vive di poco, vive di niente. Per la metà del paese che vive sotto la soglia di povertà quei 6 milioni e mezzo di dollari sono una cicatrice che non si rimarginerà e per l’altra metà sono la prova che Ingrid è come tutti gli altri.
Alessandro Rizzi lavora per la cooperazione internazionale in Colombia, dopo le esperienze in Asia fra Cambogia e Nepal. Nato nel 1982, laureato alla Cattolica di Milano in comunicazione dei media, ha collaborato a vari giornali, tra cui "Gazzetta di Parma" e "Corriere Canadese di Toronto". Da Londra ha scritto per "La Repubblica" e "Peace Reporter". Dalla Cambogia per "Popoli" e "Reset". Dal Nepal per "Popoli".