L’invidia e la gelosia, i due massimi sistemi del mondo, appartengono, di solito, ai cretini e sono rivolte all’uomo brillante e di vaglio, soprattutto in senso qualitativo, più che quantitativo, e sono associate sempre alla speranza, più o meno latente o patente, che all’uomo di valore accada qualche cosa di veramente tragico e drammatico. Sono una tabe ed una tara trasversali ad ogni ceto, censo e sesso, bi-partisan e rispettose della par condicio. Ci sono pie donne e fervidi credenti che frequentano assiduamente i templi cristiani, accendendo ceri e candele, di sego od elettriche, per impetrare, dal loro buon Dio, una grama fine per l’oggetto dei loro oscuri sentimenti. I tedeschi chiamano “Schadenfreude” questa magnanima pratica affettiva; in “Memorie del Terzo Reich”, Albert Speer aveva denunciato questo sentimento come specifico di Adolf Hitler. L’invidia, radice di ogni male, che infiniti addusse lutti a tutti e a tutto, non solo agli Achei, tarlo e termite di tutte le virtù, dai tempi di Niobe, di Prometeo, di Caino, di Romolo, di Lucifero ribelle a Dio e tentatore di Adamo ed Eva. Gli uomini vedono sempre l’erba del vicino più verde e non riconoscono mai la propria felicità, ma quella altrui, ah, quella non gli sfugge mai. E del resto, a chi diventa famoso e ricco, potente e temuto, che mai importerebbe di tutto ciò, se non sapesse di suscitare cianotici livori? L’invidia è contornata da molti lividi fratelli e sorelle, in famiglia, come la gelosia, e sono tutti l’effusione irrefrenabile di sentimenti d’inferiorità; se poi uniti all’astio, al rancore, allo struggente desiderio di vendetta, ecco che ogni beneficio e favore si imprimono sulla sabbia e si disperdono, in milioni di pulviscoli, al vento dell’oblio; mentre invece ogni contrarietà, anche la minima ed infima, viene trascritta sul marmo, a lettere di bronzo. Ma tutto ciò non rivela che la debolezza di un animo incapace di sopportare e reggere le ingiurie, anche in considerazione della loro provenienza: di solito, si tratta di miseri Rigoletti di paese. Lasciamo il compito finale ad altri che non a noi, miseri mortali: i mulini degli dèi macinano tardi, ma macinano molto fine, scriveva un tempo Sesto Empirico. L’invidia è fonte di azioni persecutorie, ma suscita, nel contempo, in chi la nutre ed alimenta, sensi di colpa corrosivi e deleterii, proprii di un impotente nel campo delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti positivi. L’invidia, la gelosia, l’astio, il rancore, la brama di vendetta, diventano la meschina manifestazione dell’incapacità di amare gli altri e se stessi, in modo autentico e positivo, costruttivo, reciproco, in nome della pura soddisfazione dei proprii bisogni narcisistici, nel timore costante di perdere auto ed eterostima, che si evolve in un delirio cronico paranoico. Ho sperimentato, come tutti, come tanti, nella mia vita, da parte di colleghi, presunti amici, conoscenti occasionali, questi miseri sentimenti, rivolti alla mia persona, pur non essendo io un genio della cultura, un gigante dell’intelletto, un prodigio dell’arte, un portento delle scienze, e nemmeno particolarmente avvenente, come James Dean o Brad Pitt, come un tronista di Maria De Filippi o come Fabrizio Corona. Ho notato che, di solito, si trattava di personaggi ipocondriaci, tendenti all’egotismo, all’egoismo, all’egocentrismo; ossia, in fondo, non tanto dissimili da me. Ma ciò che dava fastidio era il loro restringimento di ogni fine a se stessi, la loro ipervalutazione di sé e delle proprie prerogative; e, nel contempo, io rappresentavo, sempre, il grappolo ch’essi ritenevano irraggiungibile, per alcune virtù, o per certi difetti, un po’ come nella famosa favola della volpe e l’uva: non sopportavano che io facessi il passo più lungo della loro gamba. Quale miglior sistema, allora, che non il taglio dei panni addosso o quello dell’erba sotto i piedi, che non l’affondamento e l’affossamento dell’invidiato, se non continuare a colpirlo e a coprirlo di sospetti, di umiliazioni, di derisioni in loco pubblico; sei, o ti ritengo, a me superiore, in toto o in parte, metti così in luce, pubblicamente, la mia inferiorità, supposta o reale? Ebbene, io ti faccio soffrire, per queste tue doti, che io non posseggo, professionali, culturali, intellettive, sessuali; sì, anche quest’ultime, perchè piaci alle donne più di me, che Dio ti strafulmini! Non aveva, Shakespeare, definito la gelosia, in “Otello”, per bocca di Jago, come un orribile mostro dagli occhi verdi? E non è l’invidia uno dei sette vizii capitali, popolarmente raffigurata come una vecchia, lacera e misera Gorgone, che si strappa dal capo serpenti, per scagliarli addosso al prossimo suo? Ed il padre Dante non aveva posto gli invidiosi, nel suo Purgatorio, con gli occhi cuciti da rete metallica? C’è persino chi si è dovuto rassegnare a definire l’eguaglianza tra gli uomini come frutto di un’utopia da invidiosi. Non ricordo più chi, ma ci fu chi scrisse che l’invidioso, se potesse sostenere la vista del sole, non ne vedrebbe altro che le macchie. Concludo con un motto di Orazio, persona molto invidiata; egli sostenne che “Solo dalla morte è domata l’invidia”. Può darsi che avesse ragione; ma la morte di chi, dell’invidioso o dell’invidiato, prima di quella di entrambi? Almeno la soddisfazione della prima ipotesi, insomma…
Franco Bifani ha insegnato Lettere in istituti medi e superiori dal 1968 al 2003. Da quando è in pensione si dedica essenzialmente alle sue passioni: la scrittura, la psicologia e il cinema.