Ci risiamo. L’Autorità per le comunicazioni (Agcom) questa settimana dovrebbe votare un provvedimento per poter oscurare a piacimento i siti che si ritiene violino il diritto d’autore. La piattaforma di file sharing Youtube è la prima vittima che viene in mente, ma giusto per andar sul sicuro, nella proposta ci finisce dentro anche Wikileaks.
Del resto, i cablogrammi diplomatici e i video militari girati dagli elicotteri Apache mentre si accoppano civili avranno in termini giuridici un “padre morale” che li ha realizzati, no? Ci saranno degli autori a cui va riconosciuta la titolarità dell’opera e il diritto di sfruttamento economico più o meno esclusivo? E allora – devono aver pensato i furbacchioni dell’Agcom – usiamo il copyright, sinonimo improprio per parlare di diritto d’autore (il primo, di matrice anglosassone, tutela maggiormente i soggetti industriali mentre il secondo, più squisitamente europeo, pone in rilevanza gli autori in quanto creatori di un contenuto originale).
Ma non sottilizziamo con quelli che sembrano “azzeccagarbuglismi” da gente di leggi e codici. Qui la vera questione è un’altra. La vera questione è una paura più grande delle altre. Più grande delle bombe che piovono dal cielo. Più grande dei reattori nucleari che fumano. Più grande delle migrazioni da continenti poveri a continenti ricchi. Perché più grande? Perché è una paura più sottile, da sbandierare meno. È la paura dell’informazione, madre e figlia del libero pensiero.
Sembra una roba da smanettoni, da gente che passa le sue notti sulle reti peer to peer a derubare le povere major hollywoodiane. E invece – sia detto in termini chiari – è una questione che riguarda tutti. Ricordate qualcosa che suona un po’ come libertà di parola, d’espressione, di stampa e di critica? Ricordate che Internet ha sdoganato il lettore, ancor prima cittadino, dalla sua funzione di mero bersaglio dell’informazione? Avete presente quel fenomeno, chiamato “dal basso” (grassroot movement, dicono gli anglosassoni), tale per cui chiunque può farsi “produttore” d’informazione, veicolo, fulcro d’aggregazione?
Questa è l’apoteosi, almeno fino al punto raggiunto oggi sull’asse della storia, di principi che hanno ammazzato l’assolutismo europeo e hanno condotto, per quanto lentamente e per quanto in modo imperfetto, alle democrazie odierne. Provate un po’ a pensare a un fatto. Durante i fascismi degli anni Venti e Trenta, ai giornali era grosso modo vietato parlare di cronaca nera. Questo è uno dei motivi per cui, mediaticamente parlando, il caso di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, esplose solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Che brutta, in termini di prestigio del regime, la storia di una tizia un po’ avida e un po’ fuori di testa che bolliva le amiche per ragioni di quattrino.
Ve lo immaginate, saltando avanti nel tempo, cosa significherebbe raccontare oggi, usando gli strumenti che la Rete mette a disposizione (e aggirando i divieti tecnologici imposti, spesso ridicoli, e dunque facilmente scartabili anche da coloro che non sono propriamente assi del computer), parlare di morti ammazzati in un Paese in cui, secondo il governo, va tutto bene, non ci sono tensioni e la gente vive in armonia fin dentro i condomini? Ecco, quest’esercizio d’immaginazione non è neanche così difficile.
Se da un lato Twitter, Youtube, Friendfeed, Facebook e Wikileaks ci raccontano cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo prima – e talvolta meglio – dei deskiti dei giornali (cronisti condannati a sintetizzare le agenzie spacciando gli articoli per prese dirette sul campo), anche qui da noi ce lo avremmo un governo che vorrebbe far passare per paradiso in terra un Paese sempre più avvilito e sottomesso.
Questo governo ha le sue braccia armate. Stavolta si chiama Agcom, ma in passato possiamo risalire a nomi e cognomi di persone fisiche: Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi in primis, più qualche altro personaggio di secondo piano di cui non vale nemmeno più la pena ricordare le generalità. Buon per lui e per noi, che continuiamo a navigare e a informarci.
Tutti costoro, però, hanno usato il falso motivo della difesa del diritto d’autore. O, peggio, il falso motivo della difesa del diritto all’infanzia, minacciata da una Rete piena di predatori di minorenni. Bugiardi. Qualche caso c’è stato, è vero, ma non più di quanto non avvenga, de visu e in termini fisicissimi (altro che virtuali), in tante famiglie italiane. E allora si chiuda con un’affermazione: invocare la censura di Internet in difesa di qualsivoglia diritto da difendere è una falsità clamorosa. Il vero controllo che si vuole imporre è sull’accesso all’informazione, alla formazione, all’aggiornamento, all’arricchimento culturale. Che, in periodi di crisi economica e di riqualificazione professionale, è oro. Ma ancor più oro è un popolo che pensa e che critica. Senza l’informazione come si fa?
E allora si firmi l’appello contro il provvedimento dell’Agcom. L’ha lanciato il sito Avaaz.org (sottotitolo “Il mondo in azione”). Male di certo non fa e almeno si potrà dire, se mai qualche assurdo divieto alla Rete fosse imposto, “io ho protestato”. Lo trovate qui.
Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet,
cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non
necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)