Probabilmente non ci si deve più stupire, né indignare nel vedere lo spettacolo che il nostro bel Paese – socialmente e politicamente – ci offre. In realtà siamo i figli della più volgare dittatura (di destra) che l’Europa abbia conosciuto, e ne paghiamo ancora le conseguenze (o forse ci sguazziamo dentro tutti quanti).
Non l’austera, oscurantista e baciapile dittatura di Franco, tra Cristo Rey, mantiglie nere, cavalieri dalla trista figura e corride sanguinose; non quella di Salazar, cupa, misera, volutamente isolata e volutamente ignorante, sebastianista e razzista; e non quella mitica, pagana, supina, obbediente, scientificamente macellaia e perennemente in divisa di Hitler.
No, la nostra è stata una dittatura di una volgarità inarrivabile: dalla Marcia su Roma, sorta di gita fuori porta a fave e pecorino o di viaggio organizzato per pensionati con vendita di batteria da cucina o trasferta rissosa e avvinazzata al seguito della squadra del cuore; al “Boia chi molla” (certamente nonno del “celodurismo padano”); al manganello sempre citato anche nei suoi doppi sensi; alla punizione/umiliazione dell’olio di ricino: vera rappresentazione in stile Ambra-Jovinelli e ora Bagaglino dell’umorismo del rutto e della scoreggia; alla buffoneria del Duce: parole vuote ma altisonanti, ammiccamenti, barzellette da piazzista, mani sui fianchi, mascella in fuori, abbigliamento da buffone (il duce aviatore, il duce marinaio, il duce pilota d’automobili, il duce operaio, il duce borghese buon padre di famiglia, il duce gagà amante instancabile, il duce banchiere, il duce fantino a Villa Borghese…) o non-abbigliamento altrettanto ridicolo (il duce a torso nudo che taglia il grano, il duce in costume che nuota,…); alla pochezza e all’ignoranza dei suoi ministri e generali; alla menzogna ispiratrice di ogni azione militare (i milioni di baionette, la forza aerea, quella navale, e invece le scarpe rotte, la mancanza di preparazione, di mezzi, di tattica, di scienza militare, che ci hanno visti sconfitti e in fuga su tutti i fronti…); l’arte esibita e volgarizzata nel cattivo gusto del Vittoriale e nelle vestaglie orientaleggianti del Vate cocainomane…; l’iscrizione al Partito per convenienza, per ottusità, per quieto vivere, per corrompere ed essere corrotti, per non partire militare, per non pagare le tasse, per rubare sulle forniture o sulle grandi opere del regime; il doppiogiochismo della Chiesa e il suo chiudere gli occhi davanti alla distruzione degli ebrei d’Europa, davanti ai rastrellamenti di ebrei e partigiani fatti dai “ragazzi di Salò”;…
Ed è di tutto ciò che noi siamo figli. Non dei Garibaldi e dei Mazzini, dei Cavour e dei Croce. Ma di omuncoli come il vigliacco re Umberto e la sua corte (progenitore di un Vittorio Emanuele impresentabile, di una volgarità – la sua e della sua famiglia – granitica, forse il più basso esempio di testa coronata che l’Europa abbia mai prodotto). E poi gli intellettuali regolarmente iscritti al Partito Nazionale Fascista che l’indomani la Liberazione riescono a farci credere di essere candidi come sante vergini; un inciucio politico che ha visto per la gran parte lasciati ai loro posti prefetti, questori, giornalisti di regime, responsabili della deportazione di ebrei e di prigionieri vari, che in cambio di questo silenzio condiviso taceranno su stragi rosse e vendette personali, su foibe e gulag. È il paese del volemose bene, dell’uno a me e uno a te; del chiudiamo un occhio; del girarsi dall’altra parte. Per cui dopo una breve parentesi postbellica dedicata al tentativo di ricostruzione e di coesistenza semi pacifica tra comunisti e democristiani, si assiste alla negazione delle speranze e delle buone intenzioni dei Di Vittorio, dei De Gasperi, degli Einaudi, dei Nenni.
E si assiste alla creazione di una delle burocrazie più inscalfibili e potenti del mondo; di una classe politica in gran parte inefficiente e mangiasoldi; di una collusione continua tra potere mafioso e potere politico e industriale; di una Giustizia inefficiente e corrotta; si assiste impotenti (ma anche silenti e quindi in certi casi conniventi) a una continua, progressiva, inarrestabile distruzione del territorio, alla cementificazione di chilometri e chilometri di coste e montagne, all’abbandono e allo spreco delle opere d’arte, alla fuga dei cervelli, alla finta ospitalità nei confronti di milioni di immigrati, all’incapacità di mantenere un minimo di democratico ordine pubblico.
Poco da stupirsi quindi di una situazione come quella attuale: fatta di volgarità e di veline, di cachemire di sinistra e di doppiopetti di destra, di telespazzatura e di tasse non pagate (a destra, a sinistra, al centro), di furbetti del quartierino e di furboni delle cooperative, di rolex d’oro e di bandane, di tette finte e di telethon, di grandi fratelli e isole dei famosi, di piagnistei in diretta, di piduisti trasformati in statisti, di risse televisive, di razzismo mascherato, di telefonini regalati ai bambini e di suv, di opere pubbliche mai realizzate, di mignotte travestite da intellettuali e di intellettuali travestiti da mignotte, di turismo caciarone e di buonismo elettorale, di notti romane, di calciatori violenti, di cori razzisti, di parcheggi in doppia fila e di raccomandazioni, di mandolini e di catene da picchiatore, di passamontagna di sinistra, di caschi di destra, di centri sociali finanziati e di ospedali e cronicari fatiscenti, di ronde leghiste, di matrimoni celtici…
E così via… (ma l’elenco è molto, molto più lungo).
In mezzo a tanto letame (come diceva De Andrè) ci sono anche i fiori, certamente, ci sono anche le persone oneste – socialmente e intellettualmente -, ma il rischio di soffocamento è alto. Senza contare i suggerimenti dei giornalisti. Esempio del niente che spesso distribuiscono. Durante la quotidiana rubrica che conduce alla radio, Barbara Palombelli è riuscita a dire, a proposito della tragedia haitiana: “L’effetto positivo delle grandi catastrofi è che adesso ho sentito che c’è un sacco di gente che si è messa a pensare”. Peccato non tremi la terra ogni giorno. Pensando, pensando l’Italia potrebbe cambiare.
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.