Certi giorni mi alzo con una speranza demenziale, momenti in cui sento che la possibilità di una vita più umana è a portata di mano. Questo è uno dei giorni. Allora mi metto a scrivere quando ancora è l’alba, quasi con cautela, ma con l’ urgenza di chi scende in strada per chiedere aiuto di fronte al pericolo di un incendio, o come un battello che, nel momento di affondare, lancia un ultimo e accorato segnale ad un porto che sa vicino, purtroppo assordato dai rumori della città e dalle insegne che confondono lo sguardo.
Ma possiamo ancora aspirare alla grandezza. Troviamo questo coraggio. Tutti, una volta o l’altra, ci siamo arresi. Però, se qualcosa non tradisce è la convinzione che solo i valori dello spirito possono salvarci dal terremoto che minaccia la condizione umana…
Un valore è andato perduto: la vergogna. La gente non si vergogna più. Succede che, mescolate alle persone per bene, possiamo incontrare con ampi sorrisi, certi tipi accusati della peggiore corruzione. In passato le famiglie di questi tipi si seppellivano in casa, mentre i corrotti oggi vengono trattati come ogni altra persona, e le televisioni li invitano e li intervistano col garbo una volta riservato ai signori.
Nel nostro Paese tanti uomini e tante donne si vergognano nelle grandi città. Non ne capiscono i rituali. Tragicamente il mondo sta perdendo l’originalità dei suoi popoli, la ricchezza delle differenze, nel desiderio di clonare gli esseri umani per meglio dominarli. Ma quando tutto è desacralizzato si precipita nel caos e l’esistenza viene rattristata dall’amaro sentimento dell’assurdità…
Il degrado dei tribunali e la sfiducia nella giustizia danno la sensazione che la democrazia sia un sistema incapace di cercare e condannare i colpevoli. Il risultato è un clima favorevole alla corruzione con l’amarezza che sarebbe possibile denunciarla perchè solo nei sistemi non democratici non si può fare. Sistemi dove la corruzione esiste fino ad essere più corrotta e degradante, se diamo per buona la definizione di Lord Acron: «Il potere corrompe, ma il potere assoluto corrompe assolutamente». Eppure anche nella democrazia succede e spesso. Non è sempre stato così. C’erano persone dignitose, mai intascavano beni dei quali non avevano diritto. Non rubavano. Ricordo che mio padre si è mangiato il suo mulino per un credito nel quale era impegnato solo con la parola. Niente di scritto. Ne è seguito un immenso dolore. Ma era indegno per un vero uomo tradire la propria responsabilità, sentimento d’onore che dava la forza del vivere in pace. E che dire di cos’erano una volta i sindacati. Con candore ricordo la storia di quel signore svenuto per strada e quando lo rianimano i soccorritori vogliono sapere come abbia potuto perdere i sensi per fame con tanti soldi nel portafogli. Sbalordito per la domanda ha risposto: “ma i soldi non sono miei, sono soldi del sindacato”. Non che allora non esistesse la corruzione, ma la maggioranza delle persone difendeva l’onore con l’ esempio quotidiano. E rubare un bene comune era il peccato peggiore. Continuo a pensarla così.
Chiunque ruba i soldi che servono ad educare, chiunque ruba a mutue e pensioni, o infila in tasca il denaro dei contratti pubblici, non deve essere salutato. Non possiamo far finta di niente con i corrotti. Non possiamo far apparire nelle televisioni personaggi che hanno seminato il malcostume, contribuendo alla miseria; non possiamo mostrarli come gente normale ai bambini. Questa è l’oscenità. Come educare le nuove generazioni lasciandole nell’incertezza: sono eroi o criminali? Si dirà che esagero, ma non è forse un crimine che milioni di persone vivano nella povertà se si rubi loro il poco del quale hanno diritto? A quanti scandali abbiamo presenziato eppure tutto va avanti come prima e nessuno – con i soldi in tasca – finisce in galera. Certe persone continuano a mentire alla radio, alla televisione, sui giornali, e un’onda gigantesca che ci avvolge e non lo si può impedire. Fa sentire la gente impotente: alla fine scoppia così la violenza. Dove arriveremo?
Vorrei parlare di Buenos Aires. Comunque non vi abiti, mi sembrerebbe insopportabile come mia città, ecco perché soffro. Rappresenta, in qualche modo, ciò che è la vita delle metropoli dove vivono o sopravvivono milioni di abitanti. Voglio ricordare qual è la situazione del mondo, cose che già sappiamo, ma nella speranza che ripetendole come goccia d’acqua o martello contro la porta chiusa, un giorno queste realtà possano cambiare…Ogni ora il potere si concentra e si globalizza. Venti o trenta imprese come selvaggi animali totalitari lo stringono nei suoi artigli. Continenti nella miseria eppure con alti livelli di tecnologia; possibilità di vita portentose accanto a milioni di disoccupati, senza casa, senza assistenza medica, senza scuola. La massificazione ha commesso stragi ed è difficile riconoscere l’identità delle persone perché la tecnica che cambia le abitudini cambia i popoli. Quale orrore. Forse non ci si rende conto che la cancellazione dell’identità prefigura la clonazione? La gente teme che prendere decisioni per mantenere le culture diverse della propria vita, voglia dire perdere il lavoro, essere espulsa e scivolare nella moltitudine che corre angosciata alla ricerca di un posto che le impedisca di cadere in miseria. La totale asimmetria per l’eccesso di beni che si producono, socialmente sta finendo anche nella classe media, e la sofferenza di milioni di esseri umani costretti alla miseria chiama il Cielo e torna continuamente davanti agli occhi di tutti gli uomini per quanti sforzi facciano per abbassare le palpebre…
Credete sia possibile continuare a guardare in televisione lo strazio delle sofferenze mescolate, come una cattiva frittata, a frivolità pompose e corrotte? E contemporaneamente crescere figli che diventino davvero esseri umani? La mancanza di comprensione dell’altro provoca una violenza che non potremo combattere con le armi, solo un sentimento di fraternità riuscirà a salvarci.
Addio a Ernesto, ultimo narratore dell’utopia
di Maurizio Chierici
Era l’ultimo patriarca della grande stagione argentina: 99 anni. Borges, Cortazar, Bioy Casares se ne sono andati da tempo. L’ultima voce dei narratori latini che hanno resistito alle dittature del ‘900: morto Jorge Amado, morto Octavio Paz. Ecco le chiacchiere di un incontro del 2004 nel giardino di Santos Lugares, appena fuori Buenos Aires. I pensieri già ondeggiavano, la memoria era come il vento e la luce poco dopo si è spenta. Dall’altra parte della strada c’era la libreria di Ernesto Sabato, la Tv è accesa: Rai International che racconta il mare di Paola dove i suoi genitori lanciavano sguardi segreti ogni domenica fuori dalla messa. Stamattina non si è fatto la barba, ma i pantaloni sono i pantaloni ben stirati di un signore di campagna. “Anche da clandestino non volevo essere trasandato anche se i miei protagonisti non potevano guardarmi: erano quasi sempre ciechi”. C’è un cieco ne “Il tunnel” (appena ripubblicato in Italia) e la cecità è un’ossessione in “Addio allo sterminatore”, romanzo pubblicato da Einaudi. “E sto diventando cieco come avevo immaginato”.
Buona parte della vita l’ha passata scappando dallo stalinismo, dai regimi della destra militare, dal laboratorio di Madame Curie che avecva intuito nel giovane scienziato argentino un genio della ricerca. Ma Ernesto amava scrivere e dipingere e ha cambiato strada. Non ha mai smesso di inventare romanzi e racconti ma li ha quasi tutti bruciati, magari all’ultimo momento quando gli editori gli mandavano bozze e dattiloscritti per le sfumature d’eleganza. Da ragazzo si innamora di Tolstoj nella soffitta della casa paterna, emigranti calabresi sbarcati in Argentina. Combatte la dittatura del generale Uriburu, clandestino in una topaia che divide con Matilde, famiglia francese, moglie che lo accompagnerà alla vecchiaia con romantiche poesie. Nel 1935 il partito comunista lo manda a Mosca per “rinsanguare una fede che si appanava”. Ma Stalin non gli piace. Prima tappa europea a Bruxelles ad un convegno contro franchismo e fascismo. In realtà è il filtro che la cautela di Mosca ha organizzato per capire chi davvero merita l’onore della visita al Cremlino. “Il mio compagno di camera si chiamava Pierre. Gli confido i dubbi filosofici che mi perseguitano ma scopro con sgomento che non ha un cognome. Forse una spia. E poi senza Matilde il tempo mi sembrava inutile”. Scappa a Parigi con l’indirizzo di un trotzkista argentino. Tasche quasi vuote. Dorme in uno sgabuzzino gelato; si copre con i fogli dell’Hunmanité, giornale dei comunisti francesi. Quando torna a Buenos Aires lascia il parito per iscriversi a scienze fisico matematiche, come vuole il padre. Una borsa di studio lo riporta a Parigi, laboratorio Curie, appunto. Ma la vocazione è un’altra. Si mescola ad André Breton, Matta, Oscar Domingueza: il surrealismo gli fa dimenticare le ambizioni di scienziato. E comincia a scrivere accanto a Matilde nell’Argentina ritrovata. Mentre la dittatura dei militari P2 fa sparire 30 mila ragazzi, Ernesto torna clandestino sulle montagne di Cordoba. Al ritorno della democrazia il presidente Alfonsin gli affida di guidare la commissione che raccoglie il dolore delle vittime: “Ogni mattina uscivo di casa per ascoltare raccontui talmente orribili da precipitarmi in un’angoscia senza ritorno. Salutavo Matilde ripetendo: vado all’inferno”. E quando l’inferno finisce raccoglie i verbali del dolore in un libro che titola “Nunca mas “, mai più. Lo ricorda nella poltrona del giardino con malinconia: “Mi illudevo di aver esorcizzato per sempre tradimenti e torture, invece continuano”. Le sue ultime parole nel registratore: “Una volta pensavo che la morte fosse la prova della crudeltà dell’esistenza. E continuavo a ripetere: le resisterò con tutta la mia volonta. Dovrà portarmi via con la forza pubblica. Ma il tempo mi ha convinto che il viaggio è inevitabile per cominciare assieme a coloro che hanno letto le mie pagine e mi aiuteranno a morire”.
Ernesto Sábato (Rojas, 24 giugno 1911 – 30 aprile 2011) è uno scrittore argentino, figlio di immigrati italiani di origine calabrese. Nel 1999 ottenne anche la cittadinanza italiana. Dopo aver conseguito il dottorato in fisica e seguito i corsi di filosofia all’Università de La Plata, lavorò sulle radiazioni atomiche presso il Laboratorio Curie che lasciò nel 1945 per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Ha scritto varie opere di saggistica sull’uomo e la crisi del nostro tempo e sulle motivazioni dell’attività letteraria, e i tre romanzi "Il tunnel" (1948), "Sopra eroi e tombe" (1961) e "L'angelo dell'inferno" (1973).
Svolse un ruolo importante nella storia argentina post-golpista: durante il governo di Raúl Alfonsín fu il primo presidente della CONADEP, associazione che si occupò delle denunce relative ai desaparecidos della dittatura militare del 1976-1983.