Alla fine tocca sempre a loro, ai cittadini, supplire alle inadempienze e alle incapacità dell’attuale classe politica. Lo fanno pagando i costi di un indebitamento pubblico di cui non hanno colpa, lo fanno scegliendo sindaci che non sono quelli imposti dall’alto, lo fanno chiedendo l’abrogazione di norme che i parlamentari fingono di non poter cambiare. È questo il caso del referendum sulla legge elettorale, depositato in gran fretta da un irriducibile Parisi, da un sempreverde Segni e da un Di Pietro che è riuscito, così, a scippare l’iniziativa al Pd. Il che suona paradossale, perché il Pd aveva rischiato, in giugno, di ritrovarsi in casa addirittura due referendum in materia elettorale: quello apripista del prof. Passigli, già senatore di area, che virava verso un sistema proporzionale, e quello reattivo di Veltroni, determinato a difendere il presunto bipolarismo della seconda repubblica. Portare avanti due referendum contrapposti avrebbe, naturalmente, significato il fallimento, ma questo non comportava ritirarli entrambi. Tanto meno ritirarli in nome di presunte iniziative parlamentari, che certo non mancano, ma che sono spesso depositate da questo o quel politico con la consapevolezza che non arriveranno mai all’approvazione. In altre parole, i fatti dimostrano che le liste bloccate non dispiacciono a nessun partito e “il vorrei ma non posso” è ormai una stanca litania dietro la quale anche l’opposizione si è accomodata.
E i cittadini che c’entrano? Il referendum abrogativo è rimasto per loro l’ultima possibilità di cambiare le regole elettorali in tempo per la scadenza del 2013: o si raccolgono 500.000 firme entro il 30 settembre o non ci saranno più i tempi tecnici per evitare che anche il prossimo sia un Parlamento di nominati.
Sappiamo bene che la legge elettorale che uscirà dal referendum non è la migliore possibile, ma non è il momento dei sogni e qualunque soluzione, al momento, è preferibile al Porcellum. Persino il Mattarellum, che, pure, ha la colpa di avere estremizzato la frammentazione partitica creando maggioranze di governo solo numeriche, e che, contrariamente a quanto si dice, non ha neppure il merito di aver introdotto il bipolarismo in Italia. Va detto chiaro, infatti, che l’alternanza tra due poli non è un’esclusiva né del sistema proporzionale né di quello maggioritario, tanto che nelle principali democrazie occidentali convive efficacemente ora con l’uno, ora con l’altro sistema.
Si tranquillizzino, dunque, i sostenitori del maggioritario: molti di quelli che sostengono l’attuale referendum sono per una legge elettorale di impronta maggioritaria, purché a doppio turno (visti i disastri provocati dal monoturno – e non dalla quota proporzionale – nel Mattarellum). Ma quelli stessi sostenitori sanno anche che impiccarsi ad una formula non porta da nessuna parte, come da anni predica inascoltato lo spigoloso professor Sartori. Se è vero che una riforma maggioritaria a doppio turno richiederebbe anche una riforma del sistema parlamentare in direzione semipresidenziale, sul modello francese, davvero è pensabile che una classe politica incapace di approvare una semplice legge ordinaria, come è quella elettorale, possa sostenere il percorso di una riforma costituzionale?
Meglio stare, allora, con i piedi per terra. I sistemi proporzionali non sono il male assoluto, anzi. In molti Paesi garantiscono non solo il bipolarismo, ma anche governi che decidono. Tutto dipende dal tipo di sistema proporzionale che si adotta, dai correttivi tecnici che, come in Germania, possono fare la differenza. L’importante è che, con la scusa di non poter fare meglio, non ci si rassegni al peggio, con l’immobilismo totale.
Paola Caporossi, ricercatrice e analista del rischio, nel 2007 partecipò alla fase costituente del PD. Attualmente è direttrice e vicepresidente di “Fondazione Etica”, nata nel 2008 grazie al sostegno, tra gli altri, del banchiere Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo), vede tra i membri del proprio comitato scientifico il professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale.