Se chiudi gli occhi e rispondi alla domanda “che parola associ al nome lattina?” la risposta è una sola: Coca Cola….Poi ti viene in mente la Sprite, la Fanta, e se sei over sedici (non dovresti berla prima!) una qualche marca di birra. Ma a me piace il chinotto. Declinando invece la definizione del contenitore metallico da lattina a barattolo – che poi è la stessa cosa – si apre l’universo della italica dispensa fatta di pomodori pelati, fagioli, ceci, piselli, lenticchie, tonno, olio, caffé…
Oggi che sono pressanti le campagne ambientaliste per l’uso del vetro, più ecologico, riutilizzabile, che ti fa vedere cosa c’è al suo interno ecc., la lattina continua a difendersi grazie alla sua facilità di stoccaggio e alla resistenza agli urti che solo il metallo ha.
Valeria Bucchetti, attenta studiosa italiana di “imballaggi” (o più internazionalmente packaging), ha dedicato negli ultimi anni vari scritti alla storia, all’evoluzione e alla diffusione di ogni tipo di contenitore. È lei che sottolinea come, caso quasi unico nella storia del design, la lattina è una delle confezioni più rappresentative tra quelle inventate nell’Ottocento poiché perfettamente rispondente, già dal suo nascere, alle esigenze dei contenuti più vari. Sebbene con lievi modifiche le sue caratteristiche si sono mantenute inalterate per quasi due secoli anche se molto diversificato ne è stato negli anni l’utilizzo.
Rimanendo in campo alimentare molto si deve allo scienziato francese Nicolas Appert (1749-1841) che dedicò alla tecnica di conservazione un importante trattato dato alle stampe nel 1810 Le livre de tous les ménages ou l’art de conserver pendant plusieurs années toutes les substances animales et végétales, studio che andava a soddisfare l’esigenza dello stesso Napoleone Bonaparte di poter avere a disposizione del cibo non deperibile da distribuire alle proprie truppe. Al di là dell’imperatore francese, però, furono la grande quantità di nuovi prodotti che arrivavano dalle terre lontane, un tenore di vita che andava lentamente crescendo e l’assenza di frigoriferi – oggetti non ancora inventati – a rendere urgente l’invenzione di nuovi metodi di lavorazione delle materie prime fresche.
La scatola di latta, nella sua accezione di “lattina” (cioè di contenitore cilindrico interamente metallico con fondo e coperchio saldati), sembrò ideale a questo scopo. Naturalmente c’erano da affrontare alcuni problemi di varia natura. Come ogni altro tipo di imballaggio, la lattina doveva riuscire a “indurre all’acquisto”. Il suo aspetto doveva dunque essere attraente e a questo compito assolsero le etichette. Queste piccole bandelle in cromolitografia scatenarono la creatività dei grafici, spesso risvegliando negli stessi proprietari delle aziende, o nei loro familiari, inaspettate doti artistiche. Poi c’era da adeguarne il materiale ai diversi contenuti, più o meno liquidi, acidi, gasati….Allo scopo di proteggere il contenuto e non provocare reazioni chimiche, sgradevoli al gusto e nocive per il consumatore, negli anni le lattine cominciarono a essere smaltate internamente così come fu progressivamente eliminato il rischio di ferirsi con i bordi troppo taglienti.
Di più lunga gestazione – e questione ancora aperta – fu ed è il metodo di apertura del contenitore. Pur possedendo ognuno di noi un apriscatole chi non privilegia, al momento dell’acquisto, il barattolo con linguetta? Ma la vita della lattina non è sempre stata facile come oggi ci appare. Se abbastanza piana fu quella dei barattoli per alimenti – fossero essi i pomodori pelati o i famosi spinaci di Braccio di Ferro – più difficile fu l’affermarsi della lattina nel mondo delle bevande, per le quali sembrerebbe oggi essere nata. E, invece, quando già da decenni nel metallo si conservavano, per esempio, i biscotti, solo a metà degli anni Trenta, in America, venne commercializzata la birra in lattina. Nel giornale “The Reachmond News Leader”, comparve, nel gennaio del 1935 la prima inserzione pubblicitaria dei barattoli di birra. Le illustrazioni esaltavano i vantaggi di questo nuovo contenitore: “Si butta via”, “è senza deposito”, “occupa la metà dello spazio”, “protegge dalla luce il sapore”. Il barattolo messo in commercio era quello della birra Krueger, prodotto dalla American Can Company.
Le caratteristiche descritte nella réclame possono apparire oggi bislacche. Non sono certa, infatti, che tutti i lettori ricordino, o sappiano, che fino a una trentina di anni fa, vigeva nel mondo occidentale, e quindi anche in Italia, la pratica del “vuoto a rendere”. Ciò significa che, al momento dell’acquisto per esempio di latte, vino o acqua minerale, contenute in bottiglie di vetro, una parte del costo era quella relativa al contenitore e che questa veniva rimborsata ad avvenuta restituzione dello stesso. La lattina invece si buttava via e nulla doveva essere lasciato in deposito.
Diversi erano anche i suoi formati che andavano da quello “medio” (che contiene tra i 33 e i 35 centilitri diffuso in Italia e in gran parte d’Europa) ai tipi “grande” (da 44 cl) e “piccolissimo” (27,5 cl) commercializzati in Inghilterra, mentre negli Stati Uniti era ed è possibile trovare anche il “tall boy”, che contiene è di litro, e il minuscolo tipo da 20 cl usato soprattutto per birre speciali. La rivoluzione lattina non venne condivisa facilmente dal pubblico americano e quindi di conseguenza italiano che l’accoglierà in modo massificato solo all’inizio degli anni Settanta del Novecento.
Innanzitutto c’era il problema di come aprirla fuori casa e a questo si ovviò fornendo ogni lattina di piccolo apriscatole con relative istruzioni su come utilizzarlo ma anche rivedendone la forma che per molti anni venne fatta terminare a cono chiuso con un tappo, espediente che risolveva sì il problema dell’apertura ma creava problemi di imballaggio e di conservazione. Nel 1962, finalmente, la Alcoa Aluminium Company brevettava il primo tipo di barattolo con sistema di apertura a strappo: il pulltab o tab top, adottata dalla quasi totalità dei marchi, rendendo così autonomo il contenitore.
La diffidenza per la birra e le bevande in lattina si basò a lungo su una reale o solo immaginata impressione di alterazione del gusto del contenuto. Inizialmente i produttori di bottiglie non erano affatto entusiasti della diffusione della lattina che avrebbe eroso il loro mercato. I sostenitori del vetro denunciavano il sapore metallico della birra in lattina mentre la fazione pro lattina sosteneva che la luce fosse deleteria per la birra, che le lattine pesavano meno delle bottiglie e che la facilità del loro stoccaggio compensava il prezzo più alto.
Nonostante ciò alla fine degli anni Trenta le lattine occupavano in America appena l’8% del mercato di contenitori per bibite e nel 1941 ancora solo 10%.
Sebbene dopo l’apertura del mercato della birra in lattina l’attenzione delle compagnie si è fosse spostato sull’altrettanto vantaggioso mercato delle bevande analcoliche.
La Coca-Cola che non aveva mostrato un grande interesse per la lattina prima della seconda guerra mondiale, al suo termine, per paura della concorrenza fece grandi investimenti per inserire anche il contenitore metallico accanto alla bottiglia partecipando a quella che si può definire “Package Revolution”: nel 1955 la bevanda veniva messa in lattina e spedita via nave alle truppe Usa di stanza nel Pacifico e all’inizio degli anni Sessanta, l’azienda destinava grandi investimenti al lancio della lattina su scala mondiale con l’esito che tutti conosciamo!
Lucia Masina insegna storia dell'arte e storia della grafica all'Accademia di Belle Arti di L'Aquila. Negli anni Ottanta collaboratrice free-lance dell'agenzia di pubblicità e marketing Saatchi & Saatchi si è dedicata, in particolare, allo studio delle vicende artistiche tedesche e delle esposizioni universali. Tra il 2001 e il 2004 ha diretto la redazione delle sezioni Arte e Architettura della nuova edizione del Grande Dizionario Critico di Arti Visive, Letteratura, Musica e Teatro "Le Muse" per l'Istituto Geografico De Agostini. Nel 2008 ha pubblicato per i tipi del Bagatto Libri il saggio "L'Ottocento - Il secolo illustrato".