Se potesse abrogare il Sud come punto cardinale lo farebbe. Odia i poveri. I più deboli sono nemici. Solo il Nord ha senso, quel Nord che considerava gli immigrati italiani animali sporchi da emarginare. Berlusconi lascia mano libera per non perdere la poltrona
Francesco COMINA – La Lega avanguardia del passato
13-08-2009Manovre d’Agosto
Quando gli italiani decideranno che il tempo nuovo sarà quello futuro e non quello passato, allora la Lega avrà chiuso la sua storia. Non credo che occorra invocare un dio per salvare la civiltà dal tramonto come scrisse Heidegger, penso che tutto si risolverà con una irruzione improvvisa di coscienza, di consapevolezza, di chiarezza.
La Lega nasce con la testa volta all’indietro e continua a camminare di schiena. È come un’avanguardia del passato. Si è inventata una identità che appartiene ad una geografia pre-unitaria, ha costruito una regione dalle conformazioni medievali, ha preso come eroe un personaggio del XII secolo, ha utilizzato simboli antichi, ha celebrato riti pagani, ha cominciato col chiedere la secessione e ha finito col proporre il federalismo fiscale. In un pianeta sempre più interdipendente la Lega alza i muri. Odia gli immigrati, non sopporta le altre culture, le altre religioni, i più poveri e più deboli sono i nemici, se potessero abrogare il sud come punto cardinale lo farebbero subito, l’est non conta, l’ovest ha qualche ragione di esistere. Solo il nord ha senso. Ha trovato terreno fertile in un quadro politico che ha poco da spartire con questa visione pre-unitaria, asfittica e illiberale. Ma il Popolo della Libertà lascia mano libera alla Lega perché sa che è l’unica condizione per tenere in pugno il Paese. La Lega ha il coltello dalla parte del manico. Difende e sostiene Berlusconi in cambio di una delega in bianco sulle spinose questioni con le quali compattare l’elettorato leghista: guerra a tutto campo agli “altri”, rafforzamento dei privilegi padani, soffocamento delle regioni del sud, indebolimento di qualsiasi forza d’opposizione, ordine, purezza, campanilismo, localismo, etnocentrismo, affermazione dei dialetti, tutto un recupero di elementi anche positivi sfruttati spregiudicamente per fini elettoralistici e per costruire fossati sempre più impervi fra il Sé e gli altri, fra il privilegio ristretto di un gruppo e la fatica dei popoli che arrancano sulla strada della vita.
Tutto al passato, nulla al futuro.
È l’idea vetusta di una politica che ha bisogno del nemico su cui riversare le proprie nevrosi e alimentare il populismo celodurista. Già visto e sperimentato. Gli attacchi ai clandestini, le parole di Bossi sugli “immigrati assassini” rientrano in una prospettiva politica che il filosofo Renè Girard ha meravigliosamente smascherato con il suo pensiero della violenza mimetica, ossia la canalizzazione di ogni pulsione aggressiva contro un nemico individuato come capro espiatorio e di lì tessere i legami di gruppo per ottenere il consenso. Negli Stati Uniti la guerra scatenata dalla Lega agli immigrati e ai rom era già stata inscenata all’inizio del Novecento contro di noi, italiani emigranti nel Nuovo Mondo. Con le stesse parole, con la stessa violenza, con la stessa ideologia ripiena di razzismo. Da una relazione dell’ispettorato all’immigrazione del Congresso americano sugli italiani del 1912 leggiamo: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.
Fortunatamente i processi storici in atto nel mondo hanno altri percorsi. Guardano al futuro, aprono gli occhi dei popoli verso l’orizzonte dell’avvenire di un mondo che non può più vivere secondo logiche da apartheid, non può più sperimentare forme di isolamento e di menefreghismo nei confronti degli altri e della Madre Terra pena l’estinzione totale del genere umano. È il grande messaggio che ci viene da Hiroshima e Nagasaki, nei giorni del ricordo. Il cinismo della politica Usa mascherato di opportunismo strategico (oramai il Giappone era in ginocchio ed era chiaro che lo sgancio di quelle bombe serviva solo a sperimentarne la potenza) volle che quelle due città annientate, distrutte, incenerite, diventassero il simbolo di tutte le città della terra. Di più: fossero il simbolo della nuova politica cresciuta sul crinale atomico. Einstein e Freud avvertirono subito la metamorfosi dell’uomo e della polis nell’era atomica, ossia il passaggio dalle forze di Thantos a quelle di Eros, l’uscita dall’individualismo dei popoli e la ricerca di una unità possibile. E il grande paleontologo francese Teilhard de Chardin scrisse nel 1947 queste pagine stupende: “Facendo esplodere gi atomi, abbiamo addentato il frutto della grande scoperta e ciò è sufficiente perché, contemporaneamente, lo spettro delle battaglie sanguinose si dilegui sotto i raggi di una qualche ascendente unanimità (…) Perché un vero obiettivo ci è or ora apparso, un obiettivo che noi possiamo raggiungere solo inarcandoci tutti contemporaneamente in uno sforzo comune; le nostre attività non possono più, d’ora innanzi, fare altro che ravvicinarsi e convergere in un’atmosfera di simpatia: di simpatia ripeto perché guardare tutti insieme appassionatamente una stessa cosa significa inevitabilmente cominciare ad amarsi”.
La Lega è rimasta indietro anche su questa metànoia della storia, ha voltato gli occhi verso un mondo antico che non esiste più. Ricordo che qualche anno fa Bossi tirò in ballo perfino Gandhi, paragonando la Lega alle lotta per l’indipendenza dell’India. Il mondo pacifista e nonviolento s’alzò in piedi scandalizzato. Il Mahatma avrebbe aborrito una prospettiva egoistica, individualista, mercantile e violenta di pensarsi al mondo come gruppo umano, lo avrebbe liquidato come una ideologia della prepotenza, del disprezzo, della forza, nulla di cui spartire con l’ahimsa, la nonviolenza che si realizza con il satyagraha, la forza della verità..
La storia, fortunatamente, batte in una direzione futura e non ci saranno leggi alla sicurezza che sapranno fermarne il corso. Una lezione grandiosa ci viene da oltre oceano dove Obama ha già fatto, con la sua elezione, il rovesciamento ideologico di ogni sguardo leghista. Un nero presidente della nazione più potente del mondo, una identità globale frutto di contaminazioni africane, asiatiche, americane che invoca la responsabilità planetaria e allunga le mani all’islam. Un presidente che cerca di scardinare i privilegi su cui si è stratificata la società americana, chiedendo una sanità più equa e condivisa, invocando un mondo senza atomiche e una terra sostenibile. Un mondo non ego-centrico ma allocentrico in cui tutti gli uomini possano partecipare al banchetto delle risorse planetarie, dove nessuno sia mai clandestino, esubero, illegale.
Perché o questa sarà la condizione dell’uomo nel tempo futuro o non ci sarà mai un futuro. Ecco perché la Lega ha il fiato corto. Volge le spalle all’orizzonte e si compiace di essere il mondo mentre non è che un frammento, eppure infinitesimale, di un pluriverso di culture, religioni, idiomi, rappresentazioni del reale… Come scrisse Monod: “Siamo zingari sperduti nell’infinito spazio “.
Francesco Comina (1967), giornalista e scrittore. Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a "L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine). Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano.