Uno degli aspetti consolatori della crisi economica mondiale, é che il sipario crolla rovinosamente sulla piéce dell’immobilismo politico, presentata in molte società come spettacolo quotidiano. Le mobilitazioni collettive nate nel mondo arabo sono un pubblico insofferente, capace di una pressione ammirata ed emulata anche dalla società civile occidentale. E’ tempo di preparare urgentemente il futuro. Secondo il World Economic Forum, i paesi arabi devono ingegnarsi per creare 75 milioni di posti di lavoro nei prossimi 10 anni. Proprio in un tempo in cui la disoccupazione nel mondo occidentale rende l’alternativa migratoria in Europa e negli Stati Uniti, un’opzione irragionevole. Il 60% della popolazione araba ha meno di 30 anni, e nonostante i progressi nel livello di istruzione, é largamente condannata al sottoimpiego o alla ricerca esistenziale del miracoloso posto di lavoro.
Tutto era piú facile prima delle primavere arabe, non mentiamoci. Ci stiamo abituando a conoscerli sotto una luce diversa- ora latitanti, o sotto processo; in questi giorni di alluvioni internazionali, la loro morte viene bombardata dai flash furiosi della vendetta popolare. Ma prima, quando alcuni dei dittatori del mondo arabo erano al potere, tutto taceva, al punto di sembrare il piú stabile degli scenari possibili. Erano tiranni osannati dai governi “bianchi” e dagli spietati economisti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Difensori degli interessi supremi del Nord (ossia, flusso di petrolio e sicurezza di Israele) nella regione piú calda e soffocata del globo. Astuti da presentarsi come “laici” e pertanto acerrimi nemici del fondamentalismo islamico, come Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia. In realtà, la retorica islamista é stata una maschera da indossare nei momenti di crisi politica, specialmente durante i conflitti militari: resistendo l’un tempo amico statunitense che liberava il Kuwait occupato dalle proprie truppe, il “laico” Saddam Hussein fece aggiungere la scritta “Allah é grande” sulla bandiera irachena, calcata dalla sua calligrafia. E Gheddafi, negli ultimi mesi di agonia bellica, non risparmió pubblici appelli alla jihad, mentre supplicava privatamente il governo italiano di ricordarsi che bombardare gli amici non fa buon sangue.
Di cosa abbiamo paura?
Siamo al “dopo”. Ora i dittatori hanno difficoltà nel proteggere gli interessi occidentali, opprimendo allo stesso tempo la popolazione locale. Occorre, insomma, trovare un’altra equazione per mantenere un “equilibrio” comodo per non perdere i benefici dell’alleanza fra le classi dirigenti di entrambe le sponde del Mediterraneo e dell’Atlantico. Quale sarà mai, ora che alcune società arabe stanno sperimentando una inconsueta, verginale “fluidità” politica? Ora che le rivolte esigono libere elezioni democratiche? Chiediamoci di cosa esattamente abbiamo paura. Del modo in cui i partiti islamici inquadreranno le politiche di uguaglianza di genere? Se é cosí, perché gli alleati storici dell’Occidente sono regimi ultrafondamentalisti come quello saudita, e perché abbiamo appoggiato i muhajeddin in Afghanistan, e recentemente, in Libia, dove il comandante dei ribelli NATO e nuovo capo del Consiglio militare di Tripoli é Abdulhakim Belhadj, con un passato da leader del Gruppo islamico di combattenti libici? O forse, temiamo che i partiti islamici manifestino piú autonomia nei rapporti di potere internazionali, dal momento che vengono legittimati dal loro elettorato, e non dall’appoggio dei nostri governi (che tendono a non consultarci su scelte di politica internazionale)? Le elezioni in Iraq hanno portato al potere la coalizione di Al-Maliki, che include il partito islamista di Al-Sadr; il quale ha avuto un ruolo essenziale nelle trattative per “gradire” il ritiro delle truppe statunitensi dal paese, dopo 9 anni di benevola occupazione. Una promessa elettorale mantenuta, per la maggioranza di votanti iracheni. Eppure, né le coalizioni elette (islamiste o comprendenti componenti islamiste) dell’Iraq, della Tunisia, della Turchia, e prossimamente della Libia, questionano minimamente il capitalismo né i rapporti commerciali con l’Occidente.
Per favore, votate come voteremmo noi
Per ora, una tentazione nostrana pare essere quella di “controllare il cambio” insito nella prospettiva delle elezioni, o nel suo risultato. Come dire “prego, votate come voteremmo noi”. Basta leggere le analisi di questi giorni sui nostri media per toccare con mano l’insicurezza scatenata dalle possibili vittorie elettorale dei partiti islamisti. Ad esempio, il 40% dei suffragi vinto dal partito moderato Ennahda, in Tunisia. In caso di elezioni libere anche in Egitto, e sempre che i generali di Mubarak smettano di recitare il ruolo di leaders della rivoluzione, si prevede un probabile successo dei Fratelli Musulmani. Il panico anti-risultato elettorale realista da parte dei nostri analisti ricorda la logica dei sussidi statali comunisti per comprare una certa quantità di un certo prodotto: non sono certo “soldi liberi”. Si tratta di un paternalismo ignorante, un mantello che l’Occidente tende a indossare per fingere superpoteri morali: certo, il concetto di democrazia elettorale e rappresentativa si é sviluppato inizialmente da noi.
Ma se durante due generazioni di Guerra Fredda i nostri governi hanno appoggiato dittature arabe che hanno represso nel sangue ogni opposizione progressista, non deve sorprendere che i partiti islamici abbiano riempito il vuoto tombale delle alternative all’autoritarismo. Qui, le preoccupazioni sociali sono state articolate attraverso un approccio religioso, che peró é ben diversificato, come spiega Massimo Introvigne, nel suo libro “Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa” (Piemme): puó esistere un islamismo ultra-progressista, progressista, conservatore, fondamentalista e ultra-fondamentalista. Il progressista accetta la separazione fra politica e religione come inevitabile; l’ultra-progressista l’accetta con entusiasmo; il fondamentalista la rifiuta in linea di principio, ma é disponibile a compromessi; l’ultra-fondamentalista non é disposto ad alcuna negoziazione, e si separa radicalmente dalla società, o cerca di cambiarla con la violenza (es. Bin Laden). Da parte sua, l’approccio islamico conservatore (come quello cattolico, del resto), gradisce una autonomia della cultura e della politica che non impedisca alla religione di presentare la sua posizione sui temi pubblici (es. il primo ministro turco, Erdogan). L’aggettivo “islamista” non deve essere sinonimo univoco di un incubo violento. Pena la nostra incapacità (storica) di rapportarci all’Alterità. In Turchia, Malesia e Indonesia, l’islam conservatore si é imposto a quello fondamentalista.
Introvigne segnala che l’Occidente soffre di una “sindrome di Voltaire” (particolarmente in Francia), che lo spinge a cercare musulmani progressisti e ultra-progressisti che al momento o non esistono, o sono militari preparati a governare a punta di baionetta, o sono intellettuali bravi a partecipare a congressi in Europa, ma che non contano nulla nei loro paesi, né fra le comunità di immigrati. La storia dovrebbe insegnare che reprimere la forza simbolica identitaria e nazionalista dell’islam, ha solo favorito le forme piú estreme di questa religione. Succederebbe anche in società come la nostra, che si riconosce “culturalmente” cristiana, se si negasse cittadinanza ai “valori cristiani”, alla “solidarietà cristiana”, e alla partecipazione di lobbies cristiane nella politica nazionale. Il gioco democratico vive della diversità di vedute.
Eventuali istinti di sopraffazione di un gruppo su un altro vengono neutralizzati nel dibattito pubblico e dalle scelte elettorali; se non fosse cosí, da noi, molte proposte di leggi leghiste miranti a discriminare ulteriormente gli immigrati e i clandestini anche nel diritto alla salute, all’educazione e all’alloggio, sarebbero state confermate senza colpo ferire. Se dalle nostre parti i diritti di cittadinanza piú negati sono quelli degli “stranieri”, nel mondo arabo sono quelli delle donne. Ma in regimi democratici, esistono o si creano spazi di dissenso, pressione e mobilitazione collettiva, ai quali il Potere non puó essere indifferente.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).