Le risposte rabbiose dei ragazzi (generazione 20 parole) con chi si scandalizza per il lessico da trivio dello"Zoo di radio 105" fanno capire che il linguaggio 2000 non va per il sottile. Purtroppo hanno ragione: sono più scandalose le ipocrisie dei manipolatori di notizie. Dei politici che dicono e negano. Dei politici dal linguaggio triviale. Dei ministri che straparlano con cinismo
Le brutte parole sono cambiate
14-01-2010Non so se è vero che i ragazzi 2000 usano solo venti parole, per metà parolacce. Ma una rivoluzione lessicale è in corso se il direttore de “Il Giornale” Vittorio Feltri si sbriga con gli africani chiamandoli “negri “e il giorno dopo scrive l’articolo da topo di libreria obbligato a sfogliare vocabolari dal risentimento degli italiani normali. Ma non poteva sfogliarli prima? Il disagio di un adulto all’ascolto di Zoo Radio 105 è stato rimbeccato senza tenerezza da ragazzi innamorati delle parolacce. Ne fanno uso abbondante per far sapere di non essere d’accordo. Mi limito alle iniziali: cominciano per “c” finiscono con “vaffan”, tutte le lettere così (da controllare nella casella Archivio). L’avvilimento è constatare che hanno ragione: violenza verbale come ribellione contro l’ipocrisia delle forme cortigiane di comunicazione.
Il tempo passa e le brutte parole cambiano. Nel lessico delle nonne perfino i “piedi “non venivano ammessi nei discorsi di famiglia: “Con decenza parlando, ho freddo alle estremità…”. Sottovoce, filo d’apprensione per aver osato. Poi, gli anni Sessanta hanno sciolto la cultura dei figli cresciuti nell’Italia che intiepidiva il benessere permettendo ( paleo deregulation ) perfino un testo dalla copertina severa ma che nessun liceo o università se la sentivano di consigliare. Eppure i ragazzi lo sfogliavano con avidità inconsueta ad una lettura complementare: “Semantica dell’eufemismo” di Nora Galli de Paratesi, studio sull’allusione erotica nel definire gli oggetti metaforici che da sempre animano dialetti e parlate popolari. Insomma, storia di quel coso o quella cosa ripescati nei simboli e dispersi nell’allergia spregiativa del linguaggio quotidiano, da Bolzano a Palermo.
Per la prima volta i ragazzi trovano stampate le proibitissime parole che era possibile scrivere solo sui muri dei gabinetti. Dopo il ’68 si è pensato bene di ritoccare la copertina accademica della “Semantica” in una ristampa di divulgazione, Oscar Mondadori. Senza ipocrisie é diventato “Le brutte parole”. Insidiavano ogni nicchia sociale, dalla curva sud ai salotti. E sono ancora lì. Anche perché le parole ritenute sgradevoli cominciavano un’altra volta a cambiare.
Anni ’80. I giornalisti in viaggio nell’Africa dei diamanti o nella Rhodesia dove gli ultimi bianchi resistevano ai movimenti di liberazione giocando a golf nel prato immenso affacciato sulle cascate Victoria, scoprono la sconvenienza del fare domande a tavola sull’ipotesi della “parità razziale “che la convivenza tentava di normalizzare partendo dall’Africa. Nessuno immaginava la catastrofe umana dell’ Italia delle Leghe. Diventa duro lo sguardo della signora impegnata a versare il tè: “Bisogna vivere qui, per capire quale tragedia comporterebbe la parità…”. E l’incantevole cameriere nera che avanzava con una cesta di frutta, veniva accarezzata con la simpatia riservata ai cagnolini: “Per il suo bene, almeno una volta la settimana le do una ripassata”. Voce italiana; moglie del direttore della grande fabbrica di automobili italiane trapiantata a Johannesburg. Ma l’evoluzione era più radicale di quanto la cultura normale di una società normalmente egoista lasciasse immaginare. Subito dopo l’assassinio del vescovo Romero, il generale Abdul Gutiérrez, capo delle forze armate e burattinaio della giunta militare, sussurra ai giornalisti che chiedono come mai il vescovo tanto amato di un paese cattolico sia stato ucciso sull’altare, e da chi: “Era un terzomondista…”. Giustifica con l’ innocenza che la sua cultura consente l’impulso degli assassini aspettando dai giornalisti un gesto di comprensione. Più o meno l’approvazione confidenziale del Berlusconi, e dagli appositi senatori della prima e ultima ora ( da Paolo Guzzanti a Miachaela Biancofiore ) quando parlano di comunismo, attributi virili. Tanto per resistere e gestacci inverecondi per reagire. Perché essere vescovo e terzomondista o guardare le persone come persone e non esseri minori, costituisce, ormai, un’aggravante criminale indifendibile. Da cancellare.. Bisogna ammettere che negli ultimi vent’anni il principio si è rafforzato. Chi si vergogna del ministro italiano quando i disperati in fuga dalle “nostre “guerre e dalle carestie da noi organizzate; quando i disperati vengono caricati come pacchi sugli aerei della deportazione appena arrivano sfiniti a Lampedusa; chi non sopporta di vederli sfilare nelle immagini- accusa rubate dalle Tv, ammanettati “per ordini superiori”, lacci di plastica attorno al polsi; chi non ci sta a battere le mani ai meriti dell’espulsione lampo, suscita sospetti perfino più sgradevoli di quelli che accompagnano i terroristi. Almeno loro si dichiarano, mentre i senza none di buona volontà che vanno in ufficio, a scuola o prendono il treno dei pendolari, sembrano persone normali, invece sono diavoli dal razzismo nascosto.. Con l’aggravante di un pacifismo che quei colonnelli dagli occhiali neri del continente latino non riuscivano a definire non avendo mai combattuto una guerra vera contro il nemico schierato. Erano e sono allenati al tipo di repressione che i ragazzi della caserma di Genova hanno scoperto durante la notte dei cristalli, famoso G8.
Ma non è solo la mano robusta di qualche divisa o dei teologi della guerra a tutti i costi, proprio perché hanno evitato con le raccomandazioni il servizio militare. Il linguaggio di certi giornali e di troppe Tv invita quotidianamente allo scontro. Chi non parla il nostro dialetto è nostro nemico. E chi dà una mano al nemico diventa l’avversario viscido che è doveroso insultare. Per il momento. Pazienza, pensavo: i fragili per cultura e infantilismo, egoismi o sangue debole della vecchiaia, ascoltano e magari raccolgono i messaggi dei caporali del giornalismo. Ma il nostro è un paese mediamente informato dalla stampa scritta e con almeno due generazioni che non hanno perso la memoria. Nessun pericolo: la borghesia ci salverà. Sbagliavo. Nel ristorante di una città benestante, un professore di università dall’eleganza adunca consueta a tanti brianzoli, ascoltava le chiacchiere delle signore sedute allo stesso tavolo. Raccontavano del padre marocchino che ha ucciso la figlia, calci e bastone, per impedirle di sposare l’amore desiderato. Il professore posa la forchetta e si lascia andare con la fierezza di un profeta: “La parola marocchino dice tutto. Ogni volta che incontro un marocchino mi vien voglia di sputargli in faccia”. Voce alta, sala ammutolita. Tre giovanotti, giubba da moto, fanno si con la testa: ha ragione. Ma una ragazza non nasconde la rabbia che il generalizzare scatena nella sua normale cultura. E risponde al professore con le brutte parole di Nora Galli de’ Paratesi. Il professore si giustifica, sorpreso dallo scatto di nervi: “Ogni mattina sui giornali, ogni sera in Tv, un marocchino ruba, un senegalese spaccia, un tunisino imbroglia per non parlare degli albanesi. Bisogna fare qualcosa…”. Intanto adeguare i titoli a tutti i protagonisti della cronaca per evitare psicosi e persecuzioni etniche. Esercizio subito applicato dai ragazzi che frequentano un corso all’università. Si sono esercitati ad allargare agli italiani la metodologia imposta agli ospiti stranieri. “Veronese uccide fidanzata”, “Veterinario di Alessandria investe con l’auto due persone e le lascia morire senza soccorrerle”. “Due ragazzi di antica famiglia torinese tentato di dar fuoco a un barbone”. “Foglio di via obbligatorio per una prostituta modenese e magnaccia di Mantova”. “Insospettabile ragioniere di Genova rapina e uccide un gioielliere di Valenza”.”Professore di Treviso prende a schiaffi bambino senegalese”. “Quattro studenti di Pordenone nascondono la droga nel bagagliaio fingendosi nomadi”. “La cultura satanica della Val Chiavenna favorisce la deviazione delle ragazze che hanno ucciso la suora”. “Sette bambini bergamaschi picchiano un coetaneo che rifiutava di pagare 70 euro di pizzo”. Ecco un po’ di titoli, ma i testi ritoccati dagli studenti risultano più divertenti. Divertenti per noi che scherziamo, ma per marocchini, tunisini, senegalesi, africani, indiani e albanesi dalla vita onorata, ogni mattina un colpo al cuore quando incontrano le locandine dei giornali. Sono loro la feccia del mondo. L’uguaglianza del gioco universitario era stata anticipata – ma non era un gioco – da Franco Basaglia, medico che ha cancellato la cultura poliziesca che incatenava la psichiatria italiana. Chiedeva ai giornali di dargli una mano con qualche titolo adeguato: “Sano di mente stermina la famiglia”, e il matto incatenato avrebbe sorriso: “Finalmente non siamo solo noi”. Ma l’ Italia profonda si è ribellata.