Il docente statunitense Michael Walzer, autore di Just and Unjust wars, sostiene che, dopo il secondo conflitto mondiale, la realtà della guerra giusta costituisce un dato incontrovertibile, per essere attestato come tale dalle generazioni che possono esprimersi con cognizione di causa. E che egli rimanga di questo avviso lungo i decenni è provato dal fatto che in tali termini si esprime ancora in una prefazione di Wars del 2009, in cui si legge: «Nessuno che sia cresciuto durante la seconda guerra mondiale, com’è il mio caso, può dubitare dell’esistenza di guerre giuste, oltre che ingiuste». In realtà in un tale approccio, presentato come oggettivo, fosse pure condiviso dalle generazioni che hanno vissuto gli orrori di quella guerra, ed è improbabile che lo sia in modo unanime, non può esserci nulla di assodato. Se fosse penetrato infatti nella coscienza dell’epoca come evidente in sé e per sé, non ci sarebbe bisogno di fiumi di parole per riscontrarlo. Lo stesso lavoro di Walzer, che riabilita un vecchio paradigma, adattandolo ai tempi, dimostra in sostanza che nel concetto di guerra giusta non c’è nulla di assiomatico. Da dove muove allora, realmente, il discorso del docente americano? Quale potrebbe esserne il significato autentico?
Walzer spiega in apertura che il discorso scaturisce dal moto di coscienza suscitato dal Vietnam, quale modello di guerra da condannare. Egli può esserne convinto, ma è difficile che sul piano sostanziale le cose stiano in questo modo. Come annotato, il Vietnam per numerosi intellettuali ha costituito la via maestra per giungere a posizioni di netto rifiuto della guerra, quale strumento per risolvere i contenziosi fra nazioni1. La medesima cosa era avvenuta del resto dopo il secondo conflitto mondiale, quando, oltre il processo di Norimberga celebrato dalle potenze vincitrici, la discussione, pure giuridica, veniva portata oltre le nozioni di giusto e ingiusto, fino a riguardare la liceità stessa dei conflitti militari. Non è un caso che a quel punto in diverse Costituzioni, inclusa quella italiana, esordisse fra i principi fondamentali il rifiuto della guerra. Nella sua cruda oggettività, fatta appunto di circa tre milioni di morti di cui i due terzi civili, il Vietnam ha offerto la rappresentazione aggiornata dei danni che sono propri dei conflitti armati. E come tale è stato percepito da strati significativi dell’opinione pubblica, in tutti i continenti. Il discorso di Walzer sulla guerra giusta reca allora una matrice più complessa, che se in superficie può trarre degli spunti dal conflitto appena concluso, in profondo potrebbe richiamare i trascorsi civili e militari dell’America reale, il dibattito strategico, i corsi della politica.
Nel background dell’America reale, dopo lo scontro vinto con la Germania nazista, inteso suggestivamente dal generale Eisenhower come la «crociata in Europa», c’è la guerra fredda, che quando Walzer congeda alle stampe Wars dura da un trentennio. C’è altresì la Corea, che il docente statunitense, facendo propria la linea delle amministrazioni civili e militari, considera tutto sommato una guerra contenuta. In tale passato c’è ancora la crisi dei missili di Cuba del 1962, che ha rischiato di tradursi in un conflitto nucleare. C’è infine la presunzione strategica, tale da permeare la vita ufficiale degli States, di essere custodi e garanti di valori di rilievo universale, perennemente minacciati. Si tratta di definire allora quanto un tale background abbia potuto ispirare, realmente, la dottrina di Walzer, soprattutto sotto il profilo della guerra preventiva, che, correlandosi in modo strutturale con l’emergenza suprema, è di fatto il telaio oltre che il filo conduttore della medesima.
Già nell’immediato dopoguerra, ma tanto più nel pieno degli anni cinquanta, quando l’URSS stabilizzava i propri progetti di potenza atomica, un tema seriamente considerato dagli alti comandi del Pentagono per contrastare la minaccia capitale che essi avvertivano nella Russia sovietica, e quella nascente della Cina comunista, era quello del preemptive strike, di un attacco nucleare a scopo preventivo. Fautore di tale linea era soprattutto il generale Douglas MacArthur, che da comandante delle forze statunitensi nella guerra di Corea nel 1951, prima di essere destituito per insubordinazione, era giunto a proporre a Truman un attacco atomico contro la Cina. In nessuna occasione l’intenzione si è tradotta in realtà. Negli anni dell’amministrazione Eisenhower si affermava invece, sostenuto dal segretario di Stato John Foster Dulles, il principio della massive retaliation, che prevedeva l’impiego di armi atomiche nel caso in cui l’URSS avesse sferrato un attacco convenzionale. E nel decennio successivo il paradigma nucleare veniva subordinato al principio, sostenuto dal generale M. D. Taylor, di «reazione flessibile», puntato sull’impiego strategico delle armi convenzionali. La dottrina dell’intervento preventivo, che pure ha ispirato in qualche modo la condotta dell’amministrazione Kennedy nei frangenti della crisi di Cuba dell’ottobre 1962, è tuttavia rimasta sullo sfondo, per esprimersi in forma mimetica nelle situazioni ritenute di particolare criticità, attraverso operazioni segrete, civili e militari. Rientrano in tale logica fatti come la deposizione di Mohammad Mossadeq in Iran nel 1953, la deposizione del presidente Jacopo Arbenz in Guatemala nel 1954, l’attacco militare a Cuba tentato da un esercito di 1500 mercenari nel maggio 1961.
Non c’è ragione beninteso per ritenere che tutto questo abbia a che vedere con le intenzioni di Walzer, che si possono supporre invece prive di sostanziali ambiguità. È però possibile avvertire in Wars l’eco di una certa America, con i suoi timori e le sue pretese. Non è facile dedurre la supreme emergency, che segna il culmine dell’elaborazione, dalla guerra in Indocina, se non all’incontrario: nella condizione delle città e dei villaggi vietnamiti sottoposti agli attacchi americani, mentre può essere ben dedotto tale argomento dagli allarmi strategici che in America sono stati alimentati dalla guerra fredda. Un altro aspetto che merita di essere considerato è l’attenzione particolare che il docente americano riserva allo Stato di Israele, coerente peraltro con l’atteggiamento di amicizia che, sin dal dopoguerra, l’America ufficiale ha mantenuto verso il medesimo. Israele, che sin dal 1947, quando ancora doveva nascere ufficialmente, ha dovuto fare i conti con l’ostilità dei palestinesi e dei paesi arabi vicini, ha gestito le proprie necessità territoriali con parecchi atti di forza. Ha dovuto adattarsi quindi a uno stato di conflitto permanente che se nella «normalità» si è espresso in una escalation di atti terroristici e di rappresaglie, ugualmente terroristiche, in alcuni momenti particolari, come nel 1956, nel 1967 e nel 1973, si è tradotto in guerra aperta. E anche tale vicenda echeggia nel discorso di Walzer.
L’emergenza suprema, con i suoi correlati, costituisce in definitiva un motivo caratterizzante dell’epoca, se non il più influente. Il docente di Princeton non inventa perciò nulla, riflettendo bensì l’America effettiva, che «sbaglia» in Vietnam e che tuttavia si erge a garante del bene di tutti. Egli interpreta altresì, per certi aspetti, le ansie di un piccolo paese, Israele appunto, che, nel perenne stato di mobilitazione in cui vive, offre argomenti e motivazioni non solo al nazionalismo arabo, passato dopo Nasser di riflusso in riflusso, ma pure all’islam fondamentalista. Vaga e tormentata, l’elaborazione di Walzer finisce con il trovare allora nel contingente una propria necessità, riproducendo in forma mimetica i temi del realismo militarista, per divenire, allo snodo dei primi anni zero, la dottrina ufficiale dell’America.
[Brano tratto da: Carlo Ruta, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dal Vietnam all’Afghanistan, pp. 72, Mimesis Edizioni, Milano]
1 Nei decenni successivi, con il mutare degli scenari geopolitici, non pochi hanno riveduto le loro posizioni. Si è detto di Habermas e Bobbio. Un iter analogo ha seguito Ignatieff. In quegli anni, comunque, il moto di coscienza è andato declinandosi di massima in quel modo.
Carlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.