Il Novecento è stato definito il secolo breve, ma è stato più ancora il secolo dei paradossi e dei contrasti. Ha segnato significativi progressi negli iter della democrazia, e tuttavia, anche nel cuore pulsante del vecchio continente, è stato macchiato da regimi che hanno interrotto traumaticamente ogni tradizione democratica e da genocidi che per metodo, tecniche e «razionalità» organizzativa non hanno mai avuto precedenti nella storia. Alla crescita esponenziale del benessere in importanti aree del pianeta ha corrisposto la piaga della mortalità per fame e indigenza in gran parte del sud del mondo. Ai traguardi esponenziali delle tecnica, che ha migliorato la qualità del vivere, e che tuttavia da strumento è andata ponendosi protervamente come fine, ha corrisposto il degrado e la compromissione degli ambienti naturali, che mettono in pericolo la vita stessa nel pianeta. Il Novecento oltre ad avere condotto a uno snodo importante un percorso storico che Norberto Bobbio ha definito l’età dei diritti è stato in sostanza pure un secolo di sopraffazioni, offese profonde alla libertà, al vivere in senso lato, alla dignità umana. E in un quadro tanto mosso, fortemente ipotecato dai nichilismi di ascendenza tardo-ottocentesca, dalle fredde sicurezze dello scientismo e del neopositivismo, dalle metamorfosi planetarie della guerra, il pronunciamento dell’etica filosofica, a tutti i livelli, è diventato via via un dato imprescindibile.
Specie dopo il secondo conflitto mondiale, dopo che Auschwitz e Hiroshima hanno smascherato, da due opposte prospettive, il fondo buio della razionalità occidentale, il filosofo morale si è sentito istigato, interpellato, sollecitato a dare risposte, ma pure a porre domande che non erano state mai poste. Il Novecento, nella sua espressione più tragicamente matura, contrassegnata appunto dalle nuove imponenti tecniche di distruzione, è così divenuto il secolo che più di ogni altro ha interrogato se stesso sul terreno dei valori. E la domanda etica, a dispetto delle nette separazioni dell’idealismo crociano, ha finito con il «contaminare» ogni altro territorio della conoscenza e della creatività umana: le letterature, le arti, fino al capolinea del sapere scientifico in senso stretto, che con le sue assunzioni di responsabilità, più di ogni altro dà la misura di quanto sia stata profonda l’autocoscienza del secolo.
In realtà, contestualmente ai tortuosi avanzamenti della tecnica, i saperi scientifici sono entrati in un ineluttabile fermento, all’insegna della complessità e del relativismo, in opposizione comunque alle vecchie certezze del metodo, e pure questo verosimilmente ha agevolato il contatto: di certo il punto di vista morale, con il suo carico di valori, non muove più rigetti e sconfessioni di principio. Un passaggio può essere assunto come emblematico. Un logico polacco-belga di formazione fregeiana, Chaïm Perelman, nella chiave di un’apertura pluralistica e discorsiva della razionalità, ha inteso conferire dignità analitica all’universo dei valori, attraverso la logica dell’argomentazione, o del preferibile, chiamata a integrare quella dimostrativa delle scienze dette esatte. E proprio un concetto fondamentale dell’etica pubblica, quello di giustizia, ha preso a spunto per illustrare la sua tesi.
Evidentemente l’eredità, il ricordo e il peso di Auschwitz e Hiroshima hanno gravato non poco sulle comunità scientifiche dell’Occidente, influenzandone gli schemi e le condotte sul terreno. E’ significativo che un fisico come Albert Einstein, abbia sentito il bisogno di riflettere, più che in passato, da filosofo morale, con l’assunzione di posizioni forti contro l’atomica, in favore della pace e del disarmo, culminate con la firma nella primavera del 1955, condivisa con Bertand Russell e con altri nove scienziati, di un manifesto conosciuto come il più importante atto di denuncia mai scritto sulla minaccia delle armi atomiche per il genere umano. D’altra parte l’inquietudine determinata dal nuovo senso dell’imponderabile, non poteva non sollecitare le filosofie in senso lato, incluse quelle disilluse dell’esistenzialismo, con Albert Camus che affida al pensiero meridiano, che dovrebbe segnare l’oltre delle rivolte metafisiche, il valore della solidarietà; con Sartre, che al sentimento del niente di cui era pervaso L’essere e il nulla, scritto prima della guerra, fa subentrare l’impegno sociale mosso dalla ragione dialettica. E tale lavorio anziché estinguersi insieme con la guerra fredda, dopo il crollo del socialismo reale, insiste sull’onda dei nuovi processi: la globalizzazione, il multiculturalismo, le imponenti migrazioni dal sud al nord del mondo, dall’est all’ovest europeo, le nuove guerre: «preventive» e «umanitarie». Vengono poste altre domande, occorrono nuove risposte. Se allora l’economista bengalese Amartya Sen, attento ai fenomeni degradanti della globalizzazione, giunge a forzare gli orizzonti della scienza economica introducendo e computando tra i fattori di progresso materiale la variabile forte della libertà, l’epistemologo Karl Popper decide di rispondere ad alta voce ai quesiti morali che percorrono il presente, traendo dal secolo e dalla propria storia personale delle lezioni, che lo portano a difendere con impeto la «società aperta», compiutamente liberale, come il migliore dei mondi prefigurabili. E del resto, il liberalismo, con le sue varianti, le sue movenze, i suoi valori, anche quando non condivisi in tutto o in parte, è inevitabile che rimanga il punto focale della discussione sull’etica pubblica, più che mai distinta per altri versi, proprio per la dirompenza dei processi che hanno interessato il secolo, da differenti e talora assai lontane considerazioni del giusto, del bene, dell’equità, perfino della libertà.
Entro il tracciato del liberalismo storico, che ha soverchiato l’ideale aristotelico della «vita buona», l’etica classica della virtù, va dipanandosi quindi la discussione sui concetti di giustizia e di bene, in gran parte animata da due aree di pensiero, fortemente divise negli assunti di base, anche se non prive di scambi e di reciproce contaminazioni: da un lato il contrattualismo, che muove dall’idea di contratto sociale, proposta nei secoli della modernità da Thomas Hobbes, John Locke, Jean-Jacques Rousseau, Immanuel Kant; dall’altro, l’utilitarismo, che riconduce alle teorie sostenute fra la fine del Settecento e il primo Ottocento da Adam Smith, Jeremy Bentham e John Stuart Mill.
Le sollecitazioni e i traumi del tempo inducono tuttavia importanti variazioni, slargamenti di orizzonti, integrazioni, come nel caso di John Rawls, che in modo nuovo associa la libertà a una giustizia assunta come equità, e addirittura spinte centrifughe, che giungono a mettere in discussione alcuni assunti stessi del liberalismo, con l’emergere di teorie che vengono a porsi di là da tali grandi condotti teorici, da tali tradizioni, talora per ripristinarne altre più antiche. E’ il caso del comunitarismo, che recupera l’ideale aristotelico della «vita buona». Storia a sé, a prescindere dai modi in cui si pongono verso i principi fondamentali del liberalismo, fanno d’altra parte le nuove etiche della responsabilità, asimmetriche perché non rette dal criterio contrattualistico della reciprocità, come nel caso di Hans Jonas, che teorizza doveri da parte degli individui e delle istituzioni pubbliche nei riguardi degli animali e addirittura delle generazioni che devono ancora venire. Una radicale reinterpretazione delle fonti storiche viene invece proposta dalla dottrina del libertarismo, la quale, rifacendosi a Locke, propone il primato assoluto dell’individuo sulla società e sulle istituzioni, quindi il concetto di una libertà individuale quasi illimitata a fronte di uno stato «minimo», non invasivo.
Può esistere una guerra giusta?
Il tema della legittimità della guerra, già sollevato dai pensatori dell’antichità, da Aristotele a Cicerone, ha potuto conseguire una sistemazione dottrinale nei secoli del medioevo, nell’ambito della filosofia cristiana. La prima compiuta elaborazione si ritrova infatti in Agostino d’Ippona, nel libro XIX de La città di Dio.Testimone indignato del sacco di Roma del 410 e di altri eventi bellici, il filosofo della Chiesa definisce giuste le guerre che vendicano di offese certe nei riguardi di un popolo e che sono finalizzate a una pace giusta e duratura. Ammonisce tuttavia che i cristiani recanti autorità di governo, pur nell’ambito della guerra, sono vincolati alle leggi della giustizia e della carità. E tale canovaccio viene sostanzialmente ripreso nel XIII secolo da Tommaso d’Aquino, il quale nella Summa Theologiae subordina la liceità della guerra a tre elementi essenziali: l’autorità del principe per ordine del quale viene intrapresa la guerra; la giusta causa; l’intenzione giusta dei combattenti in direzione della pace. La dottrina del bellum justum viene quindi assunta e rilanciata, nel XVII secolo, da Ugo Grozio e da altri giusnaturalisti, per divenire infine argomento ricorrente del dibattito giuridico e morale in tutto l’arco della modernità.
Lungo il Novecento, la discussione giuridica e morale sul tema della guerra giusta gode di interessi ciclici, legati per lo più agli eventi traumatici del secolo. Un importante spartiacque viene segnato comunque dall’opera del giurista di ispirazione kantiana Hans Kelsen, il quale, nel 1944, mentre assume posizioni di assoluta condanna verso la guerra, definendola «un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra cultura»[1], s’interroga sulle condizioni che possono renderla legittima. Nel medesimo contesto Kelsen espone la necessità di redigere un diritto penale internazionale per i crimini commessi in tempo di guerra, ma pure quelli commessi in tempo di pace, riguardanti le violazioni del jus ad bellum, e di istituire un tribunale penale internazionale con giurisdizione obbligatoria. Pure sotto tale profilo, diviene quindi un riferimento chiave nelle discussioni teoriche dei decenni a seguire e nella prassi politica internazionale. Basti dire che alla lezione del pensatore di Praga si è ispirata l’istituzione dell’International Criminal Court, entrata ufficialmente in funzione, malgrado le innumerevoli difficoltà e gli ostacoli frapposti dagli stati più potenti, il primo luglio 2002.
Il paradigma della guerra giusta ritorna prepotentemente alla ribalta politica, giuridica e della filosofia morale negli anni del Vietnam, dal 1963 alla metà del decennio successivo. E’ infatti l’argomento con cui il governo USA cerca di giustificare l’intervento armato, senza risultare tuttavia convincente. Dopo le prime fasi del conflitto, condotte con discrezione, e soprattutto dopo la strage di My Lay, i governanti americani vengono infatti posti sotto accusa dall’opinione pubblica americana e mondiale. I grandi giornali statunitensi parlano apertamente di guerra «sporca». Viene istituito il tribunale Russell. Viene tracciato addirittura un parallelismo con i crimini che sono stati processati a Norimberga. E quando la guerra è ormai alle spalle, una pagina tragica che gli americani cercano inutilmente di dimenticare, la dottrina del bellum justum viene rielaborata e rilanciata da Michael Walzer.
Il docente di Princeton pubblica Just and Unjust Wars nel 1977, con il proposito di puntualizzare i limiti della guerra, di conferirle in sostanza uno statuto morale in quanto attività umana, attraverso la definizione dei criteri e delle condizioni che possono renderla doverosa e giusta. Ma nei decenni successivi, dopo il collasso dell’URSS, è indotto a rettificare il proprio pensiero, convinto che gli argomenti «devono marciare con il mondo attuale». Se obiettivo originario era allora la definizione dei limiti che fanno giusta la guerra, negli scritti successivi, che trovano un esaustivo compendio nell’ultimo volume pubblicato sull’argomento, Arguing about War, Walzer, rimaneggiando la categoria della supreme emergency in presa diretta con gli interventi bellici degli anni novanta, dalla prima guerra del Golfo al conflitto del Kossovo, si spinge a giustificare, in una certa misura, il superamento del limite. E su tale linea, che riporta fortemente in auge il paradigma della guerra giusta, convergono, a partire dagli anni novanta, prestigiosi esponenti delle culture progressiste e liberali. Norberto Bobbio giustifica la guerra all’Iraq del 1991, intesa come articolazione della legittima difesa del Kuwait, e, seppure con precisi distinguo, quella portata dalla NATO alla Serbia di Milosevic a fine decennio. In definitiva è giusta per il filosofo torinese la guerra che viene combattuta in difesa di valori umani universali, che sia finalizzata comunque a una pace positiva retta sulla giustizia. Dal canto suo, Jürgen Habermas, fatto proprio il medesimo paradigma, sostiene che la democrazia in determinate emergenze si possa imporre coattivamente, e suggerisce la formazione di forze armate neutrali di pronto intervento, una sorta di polizia internazionale, capace di valutazioni imparziali e misurate.
In tale quadro di riferimento, l’elaborazione di John Rawls reca una cifra propria. Coerente con la propria dottrina della giustizia, il filosofo di Baltimora afferma che «nessuno stato ha diritto di muovere la guerra per perseguire i propri interessi razionali, in quanto contrapposti a quelli ragionevoli». Aggiunge tuttavia che il diritto dei popoli consente il diritto alla guerra per autodifesa, da parte dei popoli liberali e delle società decenti. Partendo quindi dal dato che il conflitto armato può essere inevitabile, e prendendo spunto in una certa misura dalla dottrina della guerra giusta, attraverso la rielaborazione di Michael Walzer, verso cui esprime la sua sostanziale condivisione, ma rapportandosi anche alle drammatiche emergenze di fine secolo, illustra i principi restrittivi che dovrebbero ispirarla, che possono essere compendiati nei seguenti: 1) la guerra deve avere come fine ultimo la pace; 2) la guerra di un popolo bene ordinato va mossa contro un popolo non bene ordinato; 3) la guerra non va fatta al popolo e ai ranghi inferiori dell’esercito, soggetti a costrizione, ma ai leader e agli ufficiali superiori; 4) i diritti umani del nemico vanno rispettati, per quanto possibile; 5) va definita esplicitamente l’idea di pace cui si mira; 6) i mezzi distruttivi debbono essere proporzionali agli scopi da raggiungere.
In definitiva, Rawls ritiene che la guerra pure sul terreno possa essere coniugata, nell’ordine del possibile, alla ragionevolezza, attraverso l’osservanza di regole ispirate alla giustizia, proporzionate all’emergenza in atto, e in grado di interloquire comunque con il diritto internazionale bellico, le convenzioni, l’operatività delle organizzazioni umanitarie. In tal senso rigetta decisamente, trovandola nichilista, la massima del generale nordista William T. Sherman sulla guerra come inferno da chiudere prima possibile con qualsiasi mezzo.
Rawls sostiene che i popoli liberal-democratici, in quanto tali, non dovrebbero servirsi della guerra in modo ingiusto. Ma la prassi storica, se in una certa misura potrebbe corroborare la sua tesi, suggerisce al filosofo che le cose possono andare diversamente. Si evidenzia allora nell’elaborazione rawlsiana una presa d’atto che appare meritevole della massima considerazione in sede interpretativa, perché in qualche modo problematizza l’atteggiamento del filosofo, inducendolo di fatto a riserve e a prese di distanza, non privi di una certa radicalità. In ragione dei principi sopra riportati, e del suo concetto di giustizia, Rawls si trova a condannare infatti come ingiusti fatti bellici per nulla occasionali, di significato bensì strategico, e comunque cruciali nella storia recente dell’Occidente liberale.
Con argomentazioni ineccepibili, il filosofo di Baltimora qualifica come ingiusta la condotta anglo-americana in precise situazioni del secondo conflitto mondiale. Ritiene del tutto ingiustificabile, per esempio, il bombardamento inglese di Dresda, Amburgo e Berlino, poco prima che venisse firmata la resa della Germania nazista, come pure gli attacchi americani contro il Giappone nei momenti conclusivi della guerra: dalle bombe incendiarie a Tokio e in altre grandi città alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945. In ragione dei suoi principi di giustizia e di ragionevolezza, e in totale dissonanza con le storiografie ufficiali e le concezioni dominanti, argomenta inoltre che Truman e Churchill non sono stati veri grandi statisti, perché, a suo dire, hanno mancato della fredda obiettività e della capacità di guardare oltre le contingenze, pur terribili, della guerra. Riferendosi alle operazioni USA del 1945 contro il Giappone, annota:
«È evidente che sia il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki sia il bombardamento con ordigni incendiari delle città giapponesi sono stati grandi colpe morali, quel genere di colpe che i doveri derivanti dal senso dello stato impongono ai leader politici di evitare; e tuttavia è altrettanto chiaro che l’esito non sarebbe cambiato se a quel tempo i principi della guerra giusta avessero ricevuto una formulazione più articolata. Era troppo tardi: il bombardamento dei civili era ormai diventato una pratica bellica accettata».
Evidentemente, anziché tacere, lasciare irrisolto il computo delle colpe morali, il filosofo di Baltimora riconosce che i sistemi liberali-democratici dell’Occidente, pur ritrovatisi nella parte di accusatori e di giudici a Norimberga, hanno avuto un loro ineludibile contatto con l’orrore della guerra, portandosi anch’essi al capolinea della colpa. E in tale consapevolezza, in tale volontà di testimonianza, che si esplica appieno nelle pagine su Hiroshima, c’è di certo il Rawls che muove più alla condivisione, che interloquisce a distanza con il pensiero morale più dolente, il più segnato dalla crisi del Novecento: quello di Hannah Arendt, che addebita al collasso morale della nuova modernità le grandi tragedie del secolo, dalla guerra ai lager nazisti, dall’atomica al Vietnam; quello di Agnes Heller, secondo cui le guerre non possono mai realizzare istanze morali, a dispetto delle intenzioni.
Nel pensiero di Rawls manca beninteso una determinazione univoca contro la guerra quale strumento di soluzione delle controversie internazionali. La sua teoria è volta a offrire, a partire dal concetto di una giustizia equa, uno sfondo politico-normativo alla realtà sociale, e la guerra è un aspetto ineludibile della realtà, un prodotto della storia umana che fino a oggi è risultato imprescindibile. In tal senso vanno lette le sue grevi argomentazioni in favore della «guerra giusta». Nel medesimo tempo, però, il pensatore americano mostra di disapprovare senza indugio tutto ciò che, nel concreto, contraddice le regole che fanno costitutivamente la civiltà, la ragionevolezza, la giustizia, l’equità sociale, marcando per ciò stesso le distanze talora abissali fra le enunciazioni dell’etica pubblica cui gli stati ostentano di volersi ispirare e le inciviltà che possono insorgere nella prassi. Pur profondamente americano, Rawls non esita a denunciare l’America, quando comprende che è giusto farlo. Disubbidendo ai codici di comportamento di un certo liberalismo d’ordine, non manca di stigmatizzare gli aspetti aggressivi della politica estera del suo paese nel secondo Novecento, dettati da ragioni di predominio economico o strategico. Accusa gli Stati Uniti di avere rovesciato «le democrazie di Allende in Cile, Arbenz in Guatemala, Mossadeq in Iran e, aggiungerebbe qualcuno, i sandinisti in Nicaragua». E così motiva il suo dissenso: «Qualsiasi siano state le caratteristiche di questi regimi, contro di loro sono state intraprese operazioni segrete da parte di un governo spinto da interessi monopolistici o oligarchici, impedendo al pubblico ogni informazione o critica».
In definitiva, indisponibile alle condiscendenze gratuite, Rawls si mostra rigorosamente schierato in favore del diritto sostanziale, da tutte le prospettive, raccogliendo fra l’altro la migliore eredità di Hans Kelsen, il quale, nel pieno del secondo conflitto mondiale prefigurava, come sopra riportato, l’impiego di inediti strumenti giuridici internazionali per garantire la pace e il diritto dei popoli. E tale pluralità insita nel pensiero del filosofo di Baltimora, che trova continuità e riscontri oltre gli schemi dottrinarî, come testimonia fra l’altro l’alta considerazione di cui gode presso uno studioso di differente formazione e di altre latitudini come Amartya Sen, tanto più torna importante alla luce degli accadimenti che conseguono all’11 settembre: l’invasione a freddo dell’Iraq, che pone alla ribalta mondiale la violazione continuata non solo delle regole dello jus ad bellum, ma anche di quelle dello jus in bello, come già avvenuto negli anni del Vietnam; la violazione sempre più sistematica dei diritti umani nei confini civili e militari degli States, di cui è emblema lo scandalo di Guantanamo.
[1] Hans Kelsen,
Peace through Law, Chapel Hill, 1944. Trad. it. a cura di L. Ciaurro,
La pace attraverso il diritto, Einaudi, Torino 1990, pp. 35-36.
Carlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.