Proteste in Pearl Square, giugno 2011, Manama
Da adolescenti, tornando a casa traboccanti di dissolutezza alle sei del mattino, occorreva giustificarsi con un “mi hanno rapito gli alieni”. Non ho assolutamente voluto divertirmi fino a che ho potuto: è solo successo, e ora faccio il bravo. Anche in politica estera questo è savoir-faire, specialmente ora, quando tanti Re appaiono nudi, e le torte dei nuovi profitti vengono schizzate di sangue. Nella serra degli esperimenti rivoluzionari del mondo arabo, si decide dall’Alto quale verrà innaffiato, grazie al relativo appoggio mediatico e militare.
Nello stesso modo, si sceglie quale sarà disidratato dalla controrivoluzione e gettato nel silenzio. C’è l’esperimento di rivoluzione sul quale si decide di investire, la Libia. E un secondo caso, in cui si attua la controrivoluzione. Qui, lo squallore raggiunge livelli temibili: di fronte alle violazioni di diritti umani di civili da parte delle forze armate, non esiste nemmeno, nei leader politici della comunità internazionale, l’istinto opportunistico di mollare la manina dell’oppressore (come è successo in Tunisia, Egitto e Libia). Non esiste, insomma, la issue, in Bahrein. Per la saggezza popolare araba, “l’ottimismo è un dono di Dio; il pessimismo una scoperta dell’uomo”. Tutto ha un prezzo, specialmente il cambio. L'”Alto” in Medio Oriente e nel Maghreb, si chiama CGG, Consiglio di Cooperazione del Golfo. Se non autorizzano, le rivoluzioni non s’hanno da fare.
La coalizione vincente: politica, militare, mediatica. Libia
La guerra in Libia contro il dittatore Gheddafi ha monopolizzato tutta la politica estera di cui i telegiornali rendono conto. Nel 1973, lo psicoanalista e sociologo Erich Fromm comparava gli spettacoli pubblici di natura sadica offerti dai Cesari dell’antica Roma, ai resoconti mediatici contemporanei su guerre e atrocità (“Anatomia della distruttività umana”). Il cosiddetto “cibo culturale”: ci inietta brividi, e un divertimento privo di gioia. La caccia alla volpe Gheddafi è una iniezione di adrenalina bellica per tonificarci dopo la sbronza annientatrice chiamata crollo dei mercati.
Ci rincorre l’ansia di acciuffare colui che ci chiama “traditori” perché fino all’altro ieri eravamo soci in affari. Occorre ricostruire una narrazione a noi propizia: come, appunto, si faceva da adolescenti. Chi controlla i media, si aggiudica la versione più convincente della violenza legittima: la nostra. Così, in Libia una alleanza aggrega, politicamente, l’Europa e gli Stati Uniti al CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo). Tutti in visibilio per la “democrazia” imminente… anche i rappresentanti di monarchie ereditarie. A livello militare, confraternite di servizi segreti giordani, britannici, sauditi, qatariani, ecc. affiancano i libici, chiamati, per amore di sintesi, “ribelli”. Mediaticamente, il sodalizio dei più potenti, fra i quali Al-Jazeera, CNN, BBC, France24, per fare applaudire il pubblico globale quando Gheddafi diventerà il passato.
La rivoluzione “illegittima”
Cosa succederebbe, invece, nel caso di una rivoluzione non legittimata dalla NATO e dal CCG? Avrebbe visibilità mediatica e qualche vaga possibilità di vittoria? O verrebbe celata perché dobbiamo tutti seguire la narrazione della caccia al Cattivo nel post-Bin Laden? Secondo il canale iraniano PressTV, un recente sondaggio organizzato da CNN, NBC e FoxNews ammette che alcune rivoluzioni sono più amate di altre: lo Yemen è stato menzionato 559 volte; il Bahrein 1080 volte; la Libia ben 9024 volte.
E Al-Jazeera? Diventato il canale satellitare in grado di ritrarre una nuova sfera araba immune dalla censura dei regimi del Medio Oriente e del Maghreb, ha disturbato persino molte monarchie non proprio democratiche, ma per ora viste ancora come “il male minore”, come quella del Marocco, della Giordania, e dell’Arabia Saudita. Ma nemmeno Al-Jazeera puó spalancare ogni pentola bollente.
Il caso Bahrein
Il nome Bahrein significa “due mari”. Questo arcipelago, composto dall’isola di Bahrein e da altre 30 isole minori, è localizzato nel Golfo Persico. Dista 120 miglia dall’Iran e 14 miglia dall’Arabia Saudita. Nella pupilla di due avversari la cui ostilità fa impallidire quella fra mondo arabo e mondo israeliano. Non solo: il 70% della popolazione del Bahrein è sciita, come la maggior parte della popolazione iraniana. Ma il paese è governato dalla minoranza sunnita, che è maggioranza in Arabia Saudita.
Quindi le due potenze regionali hanno interessi contrapposti in Bahrein: l’Iran gradirebbe un governo della maggioranza sciita, mentre il soffice wahabismo saudita non tollera “eretici” sciiti al potere. Entrambi i regimi diffidano dei temibili diritti umani, che includono il diritto a scegliere da chi farsi governare. Da parte loro, le amministrazioni statunitensi coccolano il regime bahreniano di Al-Khalifa perché uniti ad esso, oltre che da un trattato di libero commercio, anche dal fatto che il Bahrein ospita la Quinta Flotta (che occupa addirittura un quinto della principale isola): si tratta della più imponente piattaforma del potere militare statunitense nel Golfo Persico.
Le proteste scuotono il Bahrein fin dagli anni ’90, e non hanno come motore una motivazione religiosa, ma sociale. La specialista della United Nations’ Alliance of Civilizations, Geneive Abdo, sottolinea che il contrasto fra sunniti e sciiti è alimentato dal regime, e cela in realtà il conflitto fra una opposizione sfinita dagli abusi, e una monarchia allo stile “dopo di me, il diluvio”. Laici e moderati di entrambe le interpretazioni dell’Islam non si rassegnano alla disoccupazione e alla mancanza di opzioni politiche. Della “libertà” vedono l’accezione ultraliberista.
Un mercato del lavoro che privilegia per il 60% impiegati da tutto il mondo, specialmente nel settore bancario e petrolifero. E che sfrutta quelli più poveri, addetti alla costruzione e ai lavori manuali, gli immigrati indiani e pakistani (lavoratori temporanei usa-e-getta). Questa “libertà” beneficia le multinazionali e le banche del paradiso fiscale di Manama, ma non migliorano certo le condizioni della popolazione locale. La libertà politica è un esotismo, i partiti sono proibiti. Curioso che il regime di Al-Khalifa, 20 anni fa, anziché rispondere alle esigenze sociali della sua gente, abbia preso una boccata d’aria partecipando alla coalizione internazionale contro Saddam Hussein, che aveva occupato il Kuwait. Non avendo risolto il problema interno, ora il regime cambia strategia.
La controrivoluzione
A metà febbraio, le proteste cominciano a togliere il sonno al re Hamad. Vani i suoi petali di promesse di “riforme”. Fu allora che si scatena la repressione nella Pearl Square di Manama. Dopo una ritirata tattica da parte dell’esercito, centomila persone sperano, manifestando per 3 settimane di fila, nel miracolo della caduta del regime. Errore. Su “The Progressive”, Amitabh Pal segnala che la monarchia del Bahrein ha richiesto all’Arabia Saudita di intervenire per proteggerla dalla sua propria gente. Nabeel Rajab, presidente del Bahrein Centre for Human Rights, osserva la situazione estrema: chi chiede democrazia si trova fra l’incudine del regime autoritario nazionale, e il martello dell’esercito “invitato”, saudita. Di pallottole, meglio abbondare che scarseggiare. Evidentemente, si teme il contagio democratico alle porte della fortezza. Il 14 marzo 2011, i carri armati sauditi sfilano sul tappeto rosso, per la strada selciata che collega i due paesi.
Un caso eclatante che, in circostanze diverse, avrebbe sollevato scalpore: prova non solo l’alienazione del governo dalla popolazione, ma anche il fatto che il paese è un cortile dell’Arabia Saudita. Eppure questo è per gli USA una eccezione al discorso ufficiale pro-democrazia nel mondo. Perché l’Arabia Saudita controlla il 25% del petrolio globale. La sua autorevolezza, secondo Bill Van Auken, è data dal fatto che è l’unico paese capace di incrementare la produzione petrolifera per compensare le crisi economiche e quindi prevenire un aumento incontrollato dei prezzi dei combustibili. The Wall Street Journal nota che nel caso del Bahrein, la Casa Bianca non appoggia il cambio di regime, ma al contrario, auspica candidamente una “negoziazione”, con tanta “calma e moderazione”, fra i dimostranti e la famiglia reale.
Cancellare le vittime, cancellarne i nomi
La corrispondente Amber Lyon, una delle poche voci della CNN che si è preoccupata di fornire informazioni sul Bahrein, racconta che, nella capitale Manama dove vige la legge marziale, i nomi delle vittime della repressione vengono scritte sui muri. Poco dopo i militari ricoprono le scritte con vernice bianca. L’invisibilizzazione della protesta è studiata a tavolino. In aprile, Lyon è stata arrestata e interrogata appena ha osato filmare le truppe (col passamontagna) e i carri armati che occupavano la città. Le ambulanze devono sottomettersi al permesso governativo per raccattare i dimostranti colpiti. E no, non si sentono sirene durante il concerto di spari.
Per gli oppositori al regime, l’occupazione militare dell’ospedale di Manama è un incubo: vengono arrestati i feriti e persino i medici e le infermiere che provano a curarli. Questi ultimi sono i principali testimoni della violenza militare, e devono essere intimiditi o silenziati. Ecco perché i feriti tentano l’automedicazione a casa. Sì, alla monarchia al-Khalifa, che governa il Bahrein dal 1783 monopolizzando ricchezza e risorse, manca un corso aggiornato in mediazione di conflitti.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).