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di Riccardo Lenzi
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Mafia siciliana e polizia, joint venture nel contrabbando
29-09-2009
di
Carlo Ruta
Foto Ansa
Nei primi decenni del dopoguerra “alti uffici di polizia e magistratura” coprivano i traffici dei boss.
Nei primi decenni del dopoguerra, snodo ed emporio del contrabbando internazionale era, sulla costa mediterranea del Marocco, la città libera di Tangeri, che garantiva l’approdo da ovunque senza limitazioni, né obblighi, né passaporto, per ciò stesso l’im-punità per ogni affare. I carichi di tabacchi lavorati destinati all’Europa venivano introdotti da Gibilterra e dal sud della Francia, in particolare da Nizza e Marsiglia, che godevano al riguardo di una tradizione storica. Per forza di cose, in tali traffici un ruolo cardine avevano guadagnato quindi i clan marsigliesi, mostrandosi in grado di suggerire regole all’intero mercato internazionale. E in stretta relazione con questi si impose, per capacità organizzative e dispiego di mezzi, il còrso Pascal Molinelli, detto il Goldfinger del Mediterraneo a causa della sua imprendibilità[i].
Adeguandosi alla situazione, i siciliani evitarono in quella fase di mostrare mire egemoniche. Per un periodo lungo non ingaggiarono conflitti, trovando più utile la cooperazione con i marsigliesi. Furono tuttavia in grado di esprimere un protagonismo non indifferente, che li rese importanti e rispettati dalle parti in causa. In tutto il decennio cinquanta il palermitano Pietro Davì, soprannominato Jimmy l’americano, tutelato da alti uffici della polizia e della magistratura italiana, riuscì ad attivare in effetti linee di contrabbando di rilievo internazionale, e a dominare il mercato italiano, in piena sintonia con i Burms, organizzatori di Tangeri, con Salomon Gozal, elemento di spicco del contrabbando provenzale, e con lo stesso Pascal Molinelli. Linee considerevoli di contrabbando vennero attivate inoltre da Salvatore Greco, talora in modo concorrente al primo. Si facevano altresì strada, fra i siciliani, Vincenzo Spadaro, Salvatore Adelfio, Tommaso Buscetta. Come si evince dai rapporti delle polizie dell’epoca, fu comunque determinante la presenza, da Napoli, dell’italoamericano Lucky Luciano: la cui morte, avvenuta nel 1962, segnò l’inizio di un aspro conflitto fra siciliani e marsigliesi[ii].
La chiusura del porto franco di Tangeri, nel 1961, con l’annessione della città al regno del Marocco, era comunque destinata a modificare in profondo la geografia e gli assetti organizzativi del contrabbando. Mentre i marsigliesi erano costretti a ripiegare su Gibilterra, le società produttrici dovettero spostare i depositi di sigarette lungo le coste jugoslave e albanesi. Subentrarono restrizioni nelle condizioni di pagamento delle partite. Gli sbarchi, in aree eterogenee, con una naturale proiezione verso le coste italiane dello Ionio e dell’Adriatico, imposero una diversa logistica, richiedente una maggiore organizzazione. Se tutto questo determinò allora l’uscita di scena di numerosi finanziatori autonomi, piccoli e medi, finì con il sollecitare le famiglie egemoni della Sicilia, già sufficientemente presenti nella vicenda, e forti comunque delle risorse che venivano loro dal sacco delle città, della Conca d’Oro e della cinta di Palermo in particolare, a lanciare la sfida, motivate a riorganizzare attorno a sé, in forma piramidale, il commercio illegale dei tabacchi.
Si trattò di un’ascesa incalzante. Già a metà degli anni sessanta, Pietro Davì, Salvatore Greco e altri potenti boss siciliani, come Buscetta, erano gli interlocutori più ambiti delle società produttrici, tanto da poter influire decisivamente sulle nuove localizzazioni dei depositi, lungo l’area balcanica. Nei primi anni settanta, dopo aver costretto all’angolo i marsigliesi e aver risolto la crisi che la travagliava dal 1962-63, l’organizzazione Cosa Nostra dominava gran parte del commercio intercontinentale, mentre rafforzava il proprio radicamento nelle aree operative «oltre le linee». In quella stagione, infatti, boss della camorra napoletana come Michele Zaza, Ciro Mazzarella e Antonio Spavone poterono essere «consacrati» uomini d’onore, con la garanzia forte di Michele Greco[iii].
In quegli anni, sotto l’egida dei capimafia Bontade e Badalamenti, il contrabbando internazionale dei tabacchi lavorati riusciva a contare in Sicilia su un numero non indifferente di organizzatori, di lontana e recente affiliazione, dotati di capitali ingenti, navi e flotte pescherecce, in rapporti con grandi intermediari della Philip Morris e della Reynold, con riciclatori svizzeri, e ancora, con un’ampia rete di contrabbandieri: greci, turchi, albanesi, jugoslavi, bulgari e di altri paesi mediterranei, dislocati lungo rotte sicure e collaudate. Un ruolo di tutto rispetto continuava ad occupare Pietro Davì, malgrado l’età non giovane e, soprattutto, la latitanza, che gli «amici» di cui disponeva gli consentivano di vivere con relativa comodità. Rimaneva altresì solido l’impegno organizzativo di Salvatore Greco, mentre, dopo il difficile tirocinio degli anni cinquanta, all’ombra dell’ultimo Lucky Luciano, e il balzo intercontinentale degli anni sessanta, giungeva allo zenit il prestigio di Tommaso Buscetta, che al contrabbando associava il traffico su larga scala dei narcotici. Provenienti pure loro dagli anni «eroici» del dopoguerra, un peso considerevole conservavano poi Vincenzo Spadaro e Salvatore Adelfio, che con Davì e altri uomini garantiti da Cosa Nostra, avevano tenuto testa ai boss provenzali, fino a soverchiarli. Fra le figure egemoni che facevano scuola nella Palermo che usciva dalla strage di viale Lazio, venivano, ancora, Nunzio La Mattina, Pino Savoca e Tommaso Spadaro, i quali proprio nei primi anni settanta, come i Zaza e i Nuvoletta, vennero affiliati a Cosa Nostra. Si trattava di persone che in quegli anni incutevano rispetto e riverenza, perché incarnavano una storia, un patrimonio di competenze e di esperienze, ma soprattutto un potere economico consolidato. Era il tempo in cui boss come Buscetta e Davì potevano godere di ogni sorta di riconoscimento, dall’Italia alle Americhe, quali prestigiosi uomini d’affari. Come si espresse allora tale evoluzione del contrabbando in aree dell’isola che si situavano storicamente oltre l’influenza delle cosche occidentali?
Ponendosi lungo le rotte che congiungono tre continenti, l’est siciliano reca una tradizione secolare di traffici marittimi, ricolma pure di versioni romantiche e leggendarie[iv]. E su tale tradizione si erano incardinati nei decenni del dopoguerra, gestiti da malavitosi locali, affari economici di un certo peso: tanto più lungo le coste siracusane ed etnee, dove, oltre a sigarette, venivano sbarcati stupefacenti e partite di armi, mentre venivano imbarcati reperti archeologici. Con l’aprirsi delle nuove vie del tabacco l’operatività dell’area era tuttavia destinata a crescere. Se le coste pugliesi del canale d’Otranto, acquisivano infatti una gran reputazione per la loro vicinanza alle sedi balcaniche d’imbarco e il raccordo diretto con il mercato campano, in grado di alimentare economie ai livelli di una Fiat[v], quelle della Sicilia venivano valorizzate, dai signori siciliani del tabacco, per ragioni organizzative e logistiche. Gli sbarchi nell’isola consentivano in particolare un controllo diretto delle situazioni, diversamente da quanto avveniva lungo la penisola, dove compiti di alto profilo finivano demandati a figure mediane, talora estranee al vincolo solidaristico. E le coste sud-orientali, ben posizionate nella nuova geografia dei tabacchi, venivano considerate fra le più comode, perché risultavano le meno controllate. Il mito della Sicilia differente diveniva così funzionale alle strategie di posizionamento della mafia.
Anche in tali aree il contrabbando contava del resto su una tradizione centenaria, tanto che ne rimane memoria persino nei toponimi: come nel caso di una rada della costa sciclitana, che viene chiamata ancora oggi “baia dei contrabbandieri”. La vicinanza con Malta, che oggi alimenta la tratta criminosa dei migranti, conferiva del resto a tale area un’attrattiva particolare sin dall’epoca borbonica, quando venivano introdotti in Sicilia, dall’isola antistante, oltre ad armi per i cospiratori, caffè, zucchero e altri generi. La medesima rendita posizionale si riscontrava peraltro nel secondo dopoguerra, quando nella costa da Capopassero a Scoglitti sbarcava un po’ di tutto: armi, tabacchi, narcotici, oltre che fuggitivi da dittature e guerre, seppure ben lontani dagli esodi odierni. Il balzo qualitativo degli anni sessanta-settanta, incardinato appunto sugli sbarchi dei tabacchi lavorati, fu comunque considerevole[vi].
Il raccordo con l’est, per i palermitani, passava tradizionalmente per Catania. Gettate quindi le basi dell’organizzazione subito dopo la crisi di Tangeri, nei primi anni settanta risultavano operativi nell’area etnea circa quaranta affiliati[vii]: un numero esiguo dinanzi alle migliaia che si registravano nel Palermitano, in grado tuttavia di animare, nello specifico dei tabacchi, un commercio ragguardevole, che reggeva in alcuni quartieri cittadini e centri della provincia una discreta economia. Forte di una esperienza decennale, che lo aveva visto cooperare pure con i marsigliesi e i còrsi di Molinelli, capo carismatico del gruppo era Giuseppe Calderone, affiancato da diversi familiari, fra cui il fratello Antonino, poi reo confesso. Si poneva in luce comunque, per piglio affaristico e determinazione, Benedetto Santapaola, mentre si avviava il tirocinio di picciotti come Francesco Mangion, Aldo Ercolano, Giuseppe Strano, che nel pieno della guerra scatenata dai corleonesi, sarebbero divenuti i luogotenenti più fidati di Nitto. Seppure sciolti da ogni vincolo associativo, in contatto con i catanesi e, di fatto, sotto le direttive palermitane, operavano d’altra parte i contrabbandieri siracusani, sotto la guida di Giuseppe Cannizzaro, boss che avrebbe mantenuto un ruolo di rispetto nei decenni successivi, facendo da paciere nelle controversie fra il clan Bottaro-Urso e quello di Santa Panagia[viii].
[i] Sul contrabbando mediterraneo negli anni 50-60, cfr.: Romano Canosa, Storia della criminalità in Italia dal 1946 ad oggi, Feltrinelli, Milano 1995; Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Donzelli, Roma 1998; Marisa Figurati, Francesco Marotta, Storia del contrabbando. Napoli 1945-1981, Pironti, Napoli 1981; Michele Pantaleone, Poi arrivò Lucky Luciano e anche Napoli fu Cosa Nostra, «I Siciliani», marzo 1983; Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia. Relazione 15 gennaio 1976 Traffico mafioso di tabacchi e stupefacenti nonché sui rapporti e gangsterismo americano redatta dal senatore Michele Zuccalà; Giovanni Falcone, Io, Falcone, vi spiego cos’è la mafia, «L’Unità», Roma 31 maggio 1992.
[ii] Cfr. Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia. Relazione 15 gennaio 1976, rel. senatore Michele Zuccalà, cit..
[iii] Su tale affiliazione, dichiarazioni convergenti sono venute da Tommaso Buscetta e Antonino Calderone.
[iv] Già praticato in epoche lontane, il contrabbando, in tutti i paesi, ha sedimentato tradizioni e culture. Quale modo di sostentamento per i ceti più esposti alle carestie e alla miseria, ha potuto beneficiare infatti del rispetto popolare. Significativamente, ai contrabbandieri veniva pure riconosciuto un protettore, in Sant’Elmo. Su tale tradizione in Sicilia: Serafino Amabile Guastella, Le parità e le storie morali dei nostri villani, 1884.
[v] “Marisa Figurati, Francesco Marotta, Storia del contrabbando. Napoli 1945-1981, cit.. Il contrabbando sulle coste del Tirreno e a Napoli (1960-1985). Atti del convegno organizzato dal Museo Storico della Guardia di Finanza. Roma, 21 marzo 2006.
[vi] Su tale ruolo del sud-est, alcuni riferimenti significativi in: Paolo Gentiloni, Alberto Spampinato, Agostino Spataro, Missili e mafia. La Sicilia dopo Comiso, Editori Riuniti, Roma 1985; Claudio Fava, Miki Gambino, L’altra faccia della mafia, prima parte, «I Siciliani», Catania, n. 23, dicembre 1984, seconda parte, n. 24, gennaio 1985. Claudio Fava, Ibla la dolce, due anni dopo, «I Siciliani», Catania, n. 28, maggio 1985.
[vii] Dall’audizione del collaboratore di giustizia Antonino Calderone alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della mafia presieduta da Luciano Violante: «Una volta c’erano delle differenze. Cosa Nostra di Catania guardava Cosa Nostra di Palermo come un grande mostro, una organizzazione molto grossa, poiché noi eravamo circa quaranta mentre loro erano migliaia. Tutte le cose, ed anche tutti i guai, venivano da Palermo». Verbale n. 11. Edizione Internet a cura di Liber Liber.
[viii] Il fenomeno mafioso a Siracusa si manifestò con evidenza negli anni settanta. Il clan Bottaro-Urso fu fondato nel 1974 da Agostino Urso, soprannominato u prufissuri. Negli anni ottanta ingaggiò una faida sanguinosa con l’altro clan cittadino, sorto nel quartiere di Santa Panagia.
Carlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.
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