Tra gli slogan insultanti: insetto, verme o psicopatico. Tra quelli positivi: riconoscenza (verso se stesso), comandi o "ho salvato". Si può trovare una linea di continuità nel corso del tempo. Una linea che si bilancia solo di poco in base alle contingenze politiche e alle esigenze di comunicazione più immediate
Le parole d’ordine dei dittatori: armi, sangue e comunista. Ecco come ti dipingo il regime e te lo faccio piacere
03-03-2011
di
Ippolito Mauri
“Topi”, Gheddafi si arrabbia con i ragazzi che agitano le piazze a finiscono nelle “fosse comuni”. I “topi “di Goebbels anticipano di mezzo secolo i nostri giorni: “Topi ebrei da sterminare per disinfettare la società”. Propaganda esagerata? si arrabbia all’osservazione di un intellettuale che incontra in Spagna. “Il mondo vive di propaganda. Anche l’antichità non la sdegnava. Mi dica un po’, cosa faceva Gesù Cristo?”. “Insetti”, Sharon d’Israele liquidava i palestinesi così. Era solo un generale e il ministro Moshe Dayan lo butta fuori dall’esercito: “Non abbiamo bisogno di militari psicopatici”. Moshe muore, Sharon ritorna. “Verme dal sorriso velenoso”, è il disprezzo del generale Saw Maung: non riconosce la vittoria dei democratici in Birmania e per vent’anni chiude in un isolamento surreale la pallida eleganza di Aung San Sun Kyi, Nobel per la pace.
“Washington mi deve riconoscenza: ho difeso il mondo libero dall’invasione comunista”: a Santiago, sulla tribuna della caserma O’Higghins, Pinochet festeggia l’anniversario della morte di Salvador Allende. Balla la dentiera, sputacchia sui fogli e all’ultima parola esplode l’urlo della truppa: “Comandi, mio generale”. L’eccellenza borbotta “riposo” e si accascia nella poltrona. Col sorriso spavaldo di chi ha raccolto nell’estrema destra di Arena latifondisti e squadre della morte, il maggiore Roberto D’Aubuisson ingabbia per vent’anni il Salvador ripetendo fino all’ultimo sospiro “ho salvato l’America dalla dittatura comunista“. Anni di guerra fredda, non va per il sottile. Organizza l’assassinio del vescovo Romero, “terzomondista” insopportabile.
Per conto delle multinazionali, il dittatore Ciombe conquista il Katanga e uccide Patrice Lumumba, presidente dal timido socialismo. Alla fine della colonia il voto popolare aveva affidato il Congo ad un piccolo maestro perbene. Ciolbe ne prende il posto ma non si fida delle truppe africane nelle quali spera Gheddagi. Noleggia un battaglione di “leopardi bianchi”, mercenari belgi agli ordini di Jean Schramme. Non solo non lo proteggono; aiutano il colpo di stato di chi ne prende il posto a nome delle holding di Bruxelles. Nelle omelie che il generalissimo Franco distribuiva alla Spagna avvolta nel suo fascismo azzurro – omelie accarezzate dalle meditazioni di Josè Maria Escrivà de Balguer, fondatore dell’Opus Dei – i miliziani rossi erano “cani rabbiosi”: minacciavano “la civiltà cristiana” . Insomma, meglio morti che vivi.
È solo il passato prossimo eppure il virus continua ad intorpidire le società bene educate. Fra gli ultimi squilli: “Sono sceso in campo per salvare gli italiani dal comunismo”, Silvio Berlusconi, angelo custode dei contrasti di interessi, distribuisce ninnananne nelle sue Tv. Le parole d’ordine degli uomini forti si aggrappano al comunismo con una semplificazione che trascura la realtà, ma è il ricostituente indispensabile alle ambizioni cresciute nella vanità. Non è che i dirimpettai facciamo meglio. Cambiano solo le parole e il “capitalismo “diventa il peggiore di tutti i mali. La fine del Novecento lasciava sperare in una elaborazione politica nella quale il divorzio tra lingua e coscienza, impegno pubblico e morale, evitassero la schizofrenia della semplificazione destinata solo al rimbombo degli slogan. Spot e sotto niente: sempre vecchie parole.
“Abbiamo sconfitto l’America dei capitalisti. Respingeremo con le armi e col sangue ogni loro invasione”, piazza della Rivoluzione, Fidel Castro scalda l’applauso di milioni di cubani. A volte le stesse facce vanno e vengono con discorsi che rovesciano il paradiso promesso. Quand’era primo segretario del partito comunista del Kazakistan – padrone del paese – Narzabaev si compiaceva di “guidare una nazione che contava 83 popoli, lingue e facce diverse che invocavano una mano forte per trasformarsi in una nazione felice”. L’Urss chiude, Kazakistan indipendente ma Narzabaev non se ne va. Diventa “il primo presidente liberista dell’Asia Centrale”. Eletto e rieletto da vent’anni con l’83 per cento di preferenze, non cambia discorso: “Solo la democrazia che rappresento può sintetizzare la cultura e distribuire benessere e felicità a 83 popoli che vogliono essere felici”. Incredibile, eppure continua a funzionare. E le donne? La dottrina dei teologi delle dittature non tramonta. Lavrenti Beria, mano sporca di Stalin, le considerava ” oggetti di piacere”. Dacie e palazzi ovunque e raccoglitori di bellezze che provvedevano a rasserenare le notti del ministro distrutto dalle purghe nelle quali affogava migliaia di persone. Fede e Lele Mora del tempo. Se le ragazze non obbedivano ai suoi giochi, ogni dacia, ogni palazzo, contemplava celle sotterranee. Per non perdere l’abitudine le chiudeva lì aspettando la redenzione. Ma se ne compiacevano i desideri, pellicce e auto di lusso. Dedicava poesie d’amore “all’uomo che stava cambiando il mondo”. Passano gli anni, cambia la storia eppure certi i ministri continuano a sciogliere odi al protagonista del loro destino. “Silvio, che hai cambiato la mia vita…>: devono essere versi di Bondi.