Sono settemila, i minatori d’Italia. Lavorano in oltre 70 imprese, sparse in 13 regioni, anche se la maggior parte si trova in Sardegna e in Piemonte. Hanno il volto scavato, simili alle rocce da cui estraggono minerali, metalli e metalloidi, come il piombo, lo zinco, il mercurio, l’antimonio, lo zolfo. Guadagnano in media 1.100 euro al mese, per 8 ore di lavoro sotto terra. Ora, grazie al nuovo contratto nazionale, la loro busta paga crescerà di circa 125 euro al mese. Abbastanza, ma non sufficienti da giustificare la durezza di un lavoro vecchio di secoli e di malanni. Sì, perché molti minatori si ammalano ancora di silicosi, come 100 anni fa, soffrono di patologie delle vie respiratorie e della pelle, di malattie delle ossa dovute all’umidità, in tanti portano sul corpo i segni degli incidenti occorsi sul luogo di lavoro.
Nella sola zona del Sulcis, in Sardegna, dei 15.000 operai che negli anni cinquanta lavoravano nelle centinaia di miniere della zona, nessuno ha superato i 46 anni di vita. Quasi tutti vittime di tumori e silicosi. “Fare una stima di quanti siano oggi questi lavoratori è difficile – spiega Mario Di Luca, della Filctem Cgil nazionale –, perché accanto a una buona metà che opera in vere e proprie miniere, saline o cave grandi, ce ne sono altrettanti che prestano servizio in aziende piccole, che fanno anche estrazione dal sottosuolo, ma che non sono censite come vere e proprie miniere, prendono in appalto lavori per grandi opere e spesso impiegano manodopera precaria”.
Nella prima metà del secolo scorso, erano 2.990 le miniere nel nostro paese, il 98 per cento delle quali era scavata sotto terra, e impiegavano oltre 150.000 persone. “La situazione è notevolmente cambiata con il tempo – continua il sindacalista della Filctem – e quasi tutti i vecchi siti sono scomparsi. Alcuni sono passati in mano alle Regioni, che ne danno la concessione a grandi aziende, altri, come in Val d’Aosta, sono stati riutilizzati per scopi turistici, la maggior parte sono stati abbandonati e basta. Il problema è che così non sono solo andati dispersi posti di lavoro,ma anche professionalità, conoscenze, ricerca. Un vero e proprio patrimonio che oggi rimane solo nelle miniere del Sulcis o in quelle di talco della Val Germanasca, in Piemonte, ma di cui tanto rischia comunque di andare perduto”.
Eppure l’Italia ha bisogno delle risorse del sottosuolo, basti pensare al solo utilizzo industriale che se ne fa: una villetta contiene fino a 150 tonnellate di minerali sotto forma di cemento, stucco, cartongesso, piastrelle. Un’automobile, di minerali ne contiene fino a 150 chilogrammi: nelle gomme, nei materiali di plastica, nei finestrini. Ben il 50 per cento della vernice e della carta è composto da minerali. Così come le ceramiche e il vetro, che di minerali sono fatte addirittura al 100 per cento.
“Poiché non c’è una politica mineraria nazionale, l’Italia non sa qual è il suo reale fabbisogno e ogni anno molte materie prime devono essere importate dall’estero, soprattutto per soddisfare i bisogni del settore automobilistico e cementifero”, dicono ad Assomineraria, che raggruppa circa 20 imprese impegnate nell’estrazione di minerali solidi – sia di medie dimensioni, sia appartenenti a gruppi internazionali –, sparse su tutto il territorio italiano, per un totale di circa 3.600 addetti impiegati.
Proprio la consorziata di Confindustria ha firmato il 19 ottobre, assieme ai tre sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil, l’ipotesi d’accordo del contratto nazionale di lavoro per il triennio 2010-2013, scaduto nel mese di marzo. “Lo scorso 5 novembre – osserva ancora Di Luca – abbiamo comunicato alla controparte industriale di aver sciolto la riserva relativa alla firma dell’intesa, una decisione che discende dal mandato ricevuto dai lavoratori del settore, i quali, riuniti nelle assemblee, hanno approvato l’ipotesi del rinnovo con una percentuale di adesione prossima al 100 per cento”. Una decisione, quella di far votare l’accordo dagli addetti, che ha riguardato la sola Cgil: “Nonostante tutto – prosegue Di Luca –, il contratto appena firmato ci lascia soddisfatti per molti aspetti, anche se quello di minatore continua a essere un mestiere duro e usurante”. L’intesa sottoscritta prevede un aumento medio sui minimi di 125 euro in tre tranche: in sostanza, nel triennio 2010-2013, entreranno nelle buste paga dei lavoratori 3.500 euro in più.
Il lavoro nel comparto minerario italiano non ha certo i problemi di sicurezza presenti altrove (dalla Cina al Sud America, all’Africa), ma si svolge lo stesso in un ambiente insalubre e, per sua stessa natura, esposto al pericolo di frane o esplosioni da gas. La storia dei minatori cileni appena liberati dal sottosuolo ha riportato alla luce il problema anche nel nostro paese. Per questo è molto importante che nel contratto appena siglato siano state inserite delle novità normative in materia di prevenzione. “Le società committenti, è il caso delle manutenzioni, dovranno d’ora in avanti privilegiare le aziende più qualificate nel rispetto delle norme sulla sicurezza – afferma Gabriele Valeri, della segreteria nazionale Filctem –, così come negli appalti non si potranno esternalizzare le attività facenti capo al ciclo produttivo minerario”.
Sul versante del mercato del lavoro, la principale novità stabilita dal ccnl è l’abbassamento al 30 per cento del ricorso ai contratti a tempo determinato e a somministrazione e, in particolare, la loro trasformazione a tempo indeterminato, una volta trascorsi 44 mesi. “Altri due traguardi importanti – aggiunge Di Luca – riguardano la previdenza integrativa, per cui è previsto un incremento della quota interamente a carico delle aziende, e l’aggiunta della festività di Santa Barbara, la patrona dei minatori che si celebra ogni anno il 4 dicembre, anche per gli operai e non più solo per gli impiegati”. Miglioramenti a parte introdotti dal nuovo contratto nazionale, quello che preoccupa maggiormente i minatori è il futuro del loro posto di lavoro: le miniere, a differenza delle cave a cielo aperto, sono patrimonio indisponibile dello Stato, in quanto reputate strategiche, e sono gestite dalle Regioni, che a loro volta le danno in concessione alle aziende in cambio di un canone.
“Le aziende – argomenta Di Luca –, pur di non perdere la concessione, sono state fino a oggi obbligate a estrarre minerale. Le cose stanno tuttavia cambiando, perché gli enti regionali, dopo il decreto Calderoli sul federalismo demaniale, che trasferisce alle autonomie locali le competenze su fiumi, laghi e miniere, potranno decidere di declassare una miniera al rango di cava, che a differenza della prima non è reputata strategica e di conseguenza alienabile e soggetta a contrattazione privata”. Il concessionario, quindi, non sarebbe più obbligato a lavorare la miniera e a estrarre minerali e, senza avere più la certezza del titolo minerario avuta finora da questa sorta di monopolio, potrebbe addirittura decidere di chiudere i battenti e andarsene all’estero, lasciando l’industria italiana senza più le materie prime estratte dal sottosuolo e il paese senza più le miniere, con i loro ingegneri, tecnici, ricercatori e, soprattutto, minatori.
Già diverse aziende manifatturiere hanno cominciato a delocalizzare le loro attività in Polonia e in Albania, dove si può contare su materie prime economicamente più vantaggiose, un costo del lavoro inferiore e su norme di sicurezza meno “puntuali”. “Basta che a qualcuno si rompa un qualsiasi componente di un’automobile per rendersi conto di questa tendenza – sottolineano ad Assomineraria –: il paraurti, piuttosto che uno specchio retrovisore, spesso arrivano dall’estero. Tutto questo mentre il nostro sottosuolo è ricco di metalli e di minerali utili”.
da www.rassegna.it
Sara Picardo (1979) è una giornalista free lance. Vive a Roma, insegna la lingua italiana ai migranti.