Eliane Brum, brasiliana, nonna friulana, è conosciuta come l’Oriana Fallaci dell’America Latina. In realtà è molto diversa. Vive la realtà degli altri senza esserne la protagonista. Reportages pazienti e partecipati con un impegno umano e sociale che trasformano in amicizia il rapporto frettoloso di giornalista con gli ultimi del mondo dai quali raccoglie disperazione speranza. Per sette anni ha seguito l’evoluzione di una famiglia alla deriva nelle favelas: dalla miseria al “frigorifero pieno di ogni ben di dio”, passaggi testimoniati nel libro superpremiato “La vita che non si vede”. I suoi documentari sui deserti africani hanno avuto recensioni entusiaste. Scrive per “Época”, giornale di San Paolo, Brasile, città dove vive. Ha appena consegnato all’editore il primo romanzo. In Italia ha partecipato al festival della Letteratura di Mantova e agli incontri dei grandi reporter internazionali a Ferrara.
“Ti prego, non lasciarmi morire.”
La bambina mi afferra per le braccia. Ha 11 anni ed è bella.
I suoi occhi però sono come quelli di una persona della
mia età, o forse anche più anziana. Sonia è il suo nome. In
quell’istante in cui mi chiede di cambiare il mondo, io affondo
nell’impotenza. “Racconterò la tua storia” rispondo. Ma
entrambe conosciamo il mondo quanto basta per sapere che
probabilmente lei non si salverà. Sonia e io sappiamo che il
mondo non fa caso a quelli come lei. E che il mondo neppure
la vede.
Io la vedo. Stiamo nel piccolo villaggio boliviano di Novillero,
dove Sonia vive con la famiglia. Mi trovo là per raccontare
una storia che la strappi dall’invisibilità che uccide.
Ma Sonia ha fretta. La sua vita non aspetta. Lei ha bisogno
che io la veda, che veda proprio lei, e che la salvi. E per questo
mi afferra per le braccia e mi costringe a guardare oltre il
personaggio. Lei è Sonia Cotrina Veizaga e rischia di morire.
Da allora i suoi occhi di bambina vecchia mi perseguitano.
Quando dormo o quando sono sveglia, Sonia è sempre là. E
mi implora che non la lasci morire.
Questo è il mio incubo. E spero che ora sarà anche il
vostro.
In principio era appena un battere d’ali
La Vinchuca è stata sempre là. Ogni uomo e ogni donna
delle valli e delle montagne della Bolivia l’ha chiesto a
chi c’era prima e ha ricevuto la conferma che lei è stata sempre
là. Non c’è notizia di un mondo senza Vinchuca. Le sue
tracce sono state riscontrate su mummie e scheletri risalenti
a secoli prima dell’arrivo dello spagnolo Francisco Pizarro
e della sua orda di conquistatori. La Vinchuca esisteva
quindi prima dell’inferno.
Fin da subito i bambini imparano a riconoscere il rumore
delle sue ali e quello delle sue zampe che graffiano le
pareti di fango delle abitazioni prima di attaccare: “È come
le foglie secche di granoturco al vento” dicono Cristina
Salazar Lópes e Maria Rodríguez Barrios. “Ascoltiamo e
sappiamo che loro sono là. Al buio. Sopra le nostre teste.
In attesa di cadere sui nostri corpi.”
Cristina e Maria erano molto più piccole di Sonia quando
hanno ascoltato quel rumore per la prima volta e hanno
capito intuitivamente che sarebbe stato il suono della
loro vita. Nella parte ricca del mondo, quella alla quale loro
non appartengono, i vampiri inventati smuovono milioni
di dollari nell’industria dell’intrattenimento. Lì, nelle valli
della Bolivia, i vampiri esistono nella realtà. E milioni è
l’ordine di grandezza che quantifica il numero delle loro
vittime in America Latina. Vengono chiamati in molti modi:
barbiere, succhiatore, bestia-della-parete, corazzato e
punteruolo. Ma Vinchuca è il suo nome in quechua, la lingua
ereditata dagli incas. Una lingua che persiste ancora
oggi come atto di resistenza pacifica di un popolo e che è
mantenuta viva da 13 milioni di persone che la parlano in
Bolivia, Perú ed Ecuador.
Vinchuca significa “lasciarsi cadere”. Ogni notte centi-
naia di questi insetti a sei zampe e lunghi fino a tre centimetri
si schierano sul tetto di paglia e lungo le pareti di fango
delle case dei contadini. E si mettono ad aspettare, in
appostamento e ogni volta più affamati. Quando le loro vittime
si addormentano, si sganciano e atterrano su di esse.
Immediatamente infilano il pungiglione e succhiano fino a
gonfiarsi tutto il corpo. Stracolmi di sangue, defecano.
Quando le vittime si grattano, in un sonno agitato per il dolore
dei pizzichi, il parassita letale presente nelle feci della
Vinchuca invade i loro corpi. Oppure le contagia attraverso
la bocca o gli occhi. È il Trypanosoma cruzi, identificato
dal sanitarista brasiliano Carlos Chagas nella prima decade
del ventesimo secolo. Su ogni 100 infettati, 50 contraggono
la malattia. E tra questi, in modo lento e silenzioso,
il protozoario condurrà la sua vittima alla fine. Tra i 10 e i
15 milioni di persone contraggono la malattia in America
Latina e 14.000 muoiono ogni anno.
Sonia, Cristina, Maria e migliaia di contadini della regione
di Narciso Campero, una provincia conficcata nella
parte meridionale del dipartimento di Cochabamba, in Bolivia,
vivono notte dopo notte questo film dell’orrore. Troppo
vero per essere inventato, il morbo di Chagas è forse la
più invisibile tra le malattie che sono trascurate al mondo.
E la Bolivia è uno dei luoghi più colpiti dalla malattia in
tutto il pianeta. Le donne delle campagne partoriscono gridando
non a causa del parto, ma per la paura che il proprio
figlio sia positivo. In alcuni piccoli villaggi rurali il 70%
della popolazione ha il morbo di Chagas. E di Chagas moriranno
se non riceveranno assistenza.
È difficile immaginare che le grandi ditte farmaceutiche
abbiano interesse a investire risorse per trovare un vaccino
e una cura per una patologia che colpisce soltanto i più poveri,
quelli che non hanno i mezzi neppure per costruire una
casa sicura – e che in Bolivia sono i contadini di origine indigena,
discriminati dall’élite del loro proprio paese. Soltanto
le squadre di Medici Senza Frontiere arrivano a fornirgli
un’assistenza. E dispongono solamente di una medicina creata
nel 1960, che può provocare reazioni avverse e che è prodotta
unicamente in Brasile. La malattia inoltre può contare
su una potente alleata, la povertà. Come tutte le guerre dei
miserabili, anche questa sembra non avere fine.
Mentre il mondo ignora questo orrore, ogni femmina di
Vinchuca deposita in un anno di vita tra le 100 le 300 uova
all’interno delle case e delle montagne attorno. Uova che in
sei mesi diventeranno insetti adulti pronti a riprodursi e a
saltare sulle proprie vittime, inoculando attraverso le feci
il parassita che le condurrà alla morte devastando il cuore,
l’esofago, l’intestino e il sistema nervoso centrale.
Questa storia dell’orrore non è stata inventata. I suoi
personaggi hanno un volto, un nome e un cognome. E, come
Sonia, chiedono – probabilmente invano – di non lasciarli
morire nell’ombra…..
“La boliviana Nilce Mendoza Claure, operatrice di Medici Senza
Frontiere ad Aiquile, è stata la mia traduttrice dal quechua e la mia guida
attraverso i percorsi oggettivi e soggettivi della Vinchuca in Bolivia.
Questa storia non si sarebbe potuta raccontare senza la dedizione di questa
donna dalla sensibilità straordinaria”.
(traduzione dal portoghese di Luca Bacchini)
Eliane Brum è una giornalista e scrittrice brasiliana. Con il suo reportage “A vida que ninguém vê" (Arquipelago) ha vinto nel 2007 il più importante riconoscimento letterario brasiliano, il premio Jabuti. È inviata della rivista “Época” e vive a San Paolo. Collabora con la rivista “Internazionale”. Quest’anno uscirà il suo primo romanzo per la casa editrice brasiliana Leya.