Non sono affatto monocordi le opinioni critiche nel mondo cattolico nei confronti della sentenza del TAR del Lazio. C’è anche un’area di opinione che la condivide in quanto conseguenza di principi irrinunciabili per cattolici che considerano la laicità (senza aggettivi) delle istituzioni patrimonio della loro fede. In sintesi cerco di esporre questo punto di vista.
1) La scelta per la frequenza dell’ora di religione è sempre e comunque la conseguenza di un’opzione eticoreligiosa, anche se essa può essere soggettivamente determinata, in molti, da motivazioni di tipo culturale o sociologico piuttosto che da una convinta partecipazione alla vita della Chiesa.
2) Benché l’ora di religione venga proposta nei documenti e nei programmi ufficiali come insegnamento di tipo culturale e non di tipo catechetico (e benché in alcune situazioni tali siano le sue caratteristiche e validi siano una parte dei docenti che la insegnano), essa ha una struttura completamente di tipo confessionale (formazione degli insegnanti, loro selezione e nomina da parte del vescovi, controllo sugli stessi, programmi di insegnamento ecc…).
3) Questa struttura è la conseguenza di una condizione di privilegio garantita alla Chiesa cattolica dal Concordato del 1929 e confermata dal nuovo Concordato del 1984 e dalle intese successive. Essa entra in conflitto con i principi di laicità su cui si fonda la Costituzione della nostra Repubblica. Quindi, a mio parere, la discussione sull’ora di religione coinvolge l’intero rapporto Stato/Chiesa nel nostro paese. Sono note in proposito le posizioni anticoncordatarie di quei cattolici (gli aderenti a “Noi Siamo Chiesa” tra questi) che si ispirano al capitolo 76 della Costituzione del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes che afferma che “la Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi a lei offerti dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può fare dubitare della sincerità della sua testimonianza”.
4) Premesso che la catechesi deve essere compito fondamentale della famiglia e della comunità cristiana, da tempo uomini di cultura e molti dei più attenti osservatori dei nostri ordinamenti scolastici constatano il vuoto di formazione che determina nei giovani del nostro paese l’assenza nelle scuole di un serio insegnamento del fatto religioso, soprattutto della storia delle religioni e in particolare delle tre grandi tradizioni monoteistiche. Esso dovrebbe essere previsto per tutti, obbligatorio e ovviamente soggetto a valutazione perché di tipo curriculare. L’attuale insegnamento confessionale facoltativo non risponde a questa fondamentale esigenza didattica.
5) Nella direzione della realizzazione di questa ipotesi, razionale e, vorrei dire, di buonsenso in una società sempre più secolarizzata e multiculturale, non c’è solo la resistenza delle gerarchie cattoliche ma anche, come scrive Gian Enrico Rusconi su “La Stampa” , la debolezza della cultura laica che non è mai riuscita “a proporre in alternativa all’ora di religione confessionale….lo studio del fenomeno religioso in una grande prospettiva storica comparata”. Non si tratta quindi di voler eliminare la religione dalla scuola, come sostiene la facile propaganda fondamentalista della destra cattolica, ma di ritenerla per tutti elemento fondamentale della conoscenza, a partire dalla non contestabile ripresa di attenzione nella società, negli ultimi anni, nei confronti del fatto religioso.
6) Il ricorso al TAR è stato promosso, non solo da alcune organizzazioni della cultura laica ma anche e soprattutto da tutte le confessioni cristiane presenti nel nostro paese e dall’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane). E’ possibile che questo fatto non interroghi seriamente i vescovi sui fondamenti stessi della loro, molto vivace e polemica, reazione alla sentenza? Perché con questi nostri fratelli, che hanno da tempo elaborato riflessioni di grande interesse su queste tematiche, non si avvia un dialogo a cuore aperto a partire dal comune impegno per proporre a tutti il Vangelo di Gesù? E con la cultura laica l’unica possibilità di rapporto è quella dell’accusa fattale ieri da Mons. Diego Coletti, a nome della CEI, di cadere “nel più bieco e negativo risvolto dell’illuminismo” perché ispirata da “irriducibili laicisti”?
Su queste questioni, come sulle altre oggetto di continui contenziosi, penso che le gerarchie della nostra Chiesa dovrebbero fare un passo indietro e pensare ad un diverso rapporto con le istituzioni, che parta da preoccupazioni e da riflessioni di tipo esclusivamente pastorale”.
Vittorio Bellavite è il coordinatore nazionale di Noi siamo Chiesa