Nello stadio del Centenario di Montevideo si esibirono Maradona e l’Argentina, campione del mondo in carica. Rummenigge e la Germania Ovest campione d’Europa. Il Brasile di Cerezo, Socrates e Junior. Quel che restava dell’Olanda, già priva di Crujiff e Krol. E l’Italia di Bearzot. Orfana di Paolo Rossi e Giordano, squalificati dopo lo scandalo delle scommesse clandestine del marzo precedente. Senza Zoff, lasciato a casa per testare le qualità di Bordon e con Zinetti terzo portiere. E senza Gigi Peronace, il capodelegazione, nonché l’ideatore del Torneo anglo-italiano, stroncato da un infarto alla vigilia della partenza per il Sudamerica. Però fu la squadra di casa, l’Uruguay della meteora Victorino a vincere la Copa de Oro de Campeones Mundiales, il nome ufficiale della manifestazione.
Questa è la storia del Mundialito, come lo ribattezzarono con sommo disprezzo gli argentini per distinguerlo dal Mondiale, quello vero, ospitato e vinto due anni prima contro gli olandesi a Baires. Un torneo dimenticato. Svoltosi trent’anni fa. Dal 30 dicembre 1980 al 10 gennaio 1981. All’ombra della dittatura militare fascista di Aparicio Méndez e con la benedizione della Fifa del brasiliano Joao Havelange. Fu un torneo scandito da poco calcio, molti calci. Con un contorno di diritti umani calpestati. E di diritti televisivi comprati, con l’intervento della loggia massonica P2, da parte di un tycoon milanese che diventerà Presidente del Consiglio.
Un torneo dimenticato
Quella rassegna che pure i vincitori uruguagi hanno rimosso virtualmente dalla bacheca era stata ideata da Washington Cataldi, all’epoca presidente del Peñarol, uno dei club di Montevideo più noti e vincenti a livello internazionale come il Nacional. Di più, era un politico assai vicino alla junta di Méndez, dall’ottobre 1980 secondo successore, dopo il feroce Alberto Demicheli, di Juan Marìa Bordaberry, autore del golpe nel febbraio 1973. Il torneo fu finanziato, con l’intento di rientrare dalle spese vendendone i diritti per la trasmissione televisiva, da un imprenditore di origine greca che viveva in Uruguay, tal Angelo Vulgaris, titolare di una multinazionale della carne e del bestiame battente bandiera panamense.
L’obiettivo era celebrare il cinquantenario della prima Coppa Rimet, disputatasi nel 1930 proprio sulla sponda settentrionale del Rio de La Plata e vinta dai padroni di casa. Furono invitate le sei nazionali che avevano vinto almeno una volta il titolo iridato. Ma solo cinque vi parteciparono. L’Olanda – seconda nel 1974 e nel 1978 -sostituì l’Inghilterra che aveva detto: «No, grazie». Ufficialmente per incompatibilità con il calendario del campionato nazionale, che per tradizione si intensifica proprio durante il periodo natalizio. Probabilmente per protesta contro la junta di Montevideo.
Calcio e repressione militare
Quest’ultima, alla fine del 1980, dovette affrontare due appuntamenti: il Mundialito e un referendum modificativo della Costituzione – fissato per il 30 novembre -, che avrebbe dovuto legittimarne il potere. E che invece si risolse in un flop. Così non restò che quel torneo, dapprima snobbato, per riconquistare il consenso interno e un riconoscimento internazionale che ne avrebbe dovuto rompere l’isolamento politico. Quello di Montevideo, del resto, non era in quel periodo l’unico regime militare di stampo fascista del Sudamerica.
C’era – tra gli altri – quello del Cile di Augusto Pinochet, salito anche lui al potere con un golpe l’11 settembre 1973. Proprio a Santiago del Cile e a Montevideo, del resto, i militari «sperimentarono» le tecniche della desaparicion (scomparsa) e dei centri di detenzione clandestini per gli oppositori che sarebbero stati utilizzati in larga scala in Argentina: 30 mila desaparecidos, 15 mila fucilati, 10 mila torturati sopravvissuti alle sevizie e due milioni di esuli, secondo le cifre ufficiali. Torture, assassini e sparizioni che non si erano interrotti nemmeno nel giugno 1978 durante I Mondiali della vergogna, come il titolo di un recente saggio del giornalista argentino Pablo Llonto. Perché il calcio e le sue istituzioni – al vertice della Fifa c’era, dal 1974, Havelange, uno degli esponenti del ricchissimo ceto economico che aveva consegnato anche il Brasile ai militari nel 1964 – chiusero gli occhi innanzi a quel massacro organizzato, legittimando a livello planetario la dittatura di Jorge Rafael Videla. Una dittatura spietata cui la vittoria della squadra di casa, capitanata da Passarella e guidata da Menotti, diede un ulteriore consenso, allungandone la sopravvivenza almeno fino alla disfatta nella guerra con la Gran Bretagna per il possesso delle isole Falkland/Malvinas (1982).
Il legame tra calcio e potere scandì le vicende di quasi tutti i regimi latino-americani di quegli anni. Dittature e vittorie. Con la Fifa di Havelange a legittimare le une e le altre. Nel Sudamerica che visse all’ombra sanguinaria del famigerato Plan Condor, una strategia multinazionale per la sistematica eliminazione degli oppositori in patria e all’estero, elaborato dai regimi militari con il sostegno e la copertura della Cia (i servizi segreti degli Stati Uniti d’America), oltre all’appoggio di Henry Kissinger, premio Nobel per la pace (!) e segretario di stato americano (di origine tedesca) tra il 1968 e il 1977, durante i mandati di Richard Nixon e Gerald Ford. Nonché appassionato di calcio. Tanto da aver avuto un posto d’onore tra gli invitati alla finale di Baires ’78.
Azzurri fuori subito
Due anni più tardi, il regime di Montevideo volle conseguire – ospitando la Copa de Oro de Campeones Mundiales -, il successo sportivo, interno e internazionale che aveva ottenuto la junta argentina di Videla. E ci riuscì. Nonostante qualche timida protesta contro la partecipazione delle rispettive nazionali in Olanda e in Italia. Sì, proprio in Italia, dove in 41 tra tecnici e calciatori – ma alla fine furono rese note solo le adesioni dell’allenatore della Lazio, Ilario Castagner, e del difensore romanista Sergio Santarini – firmarono un documento di protesta nel quale si chiedeva che il Mundialito fosse «anche una tribuna dove si condanni la politica di repressione e fame portata avanti in questi ultimi sette anni».
La protesta, comunque, non sortì alcun effetto. Perché il torneo si svolse sotto l’egida della Fifa di Havelange e della Federcalcio uruguagia (Auf), nonostante fosse stato concepito e organizzato da imprenditori privati. E perché tutto, ma proprio tutto, fu messo in piedi per far vincere la Celeste. A cominciare da un sorteggio pilotato che la inserì nel girone con Olanda e Italia, sulla carta le più deboli. Mentre Brasile, Germania Ovest e Argentina andarono a scornarsi nell’altro. Il torneo iniziò il 30 dicembre con il 2-0 (gol di Ramos e Victorino) dei padroni di casa sugli Orange.
Il 3 dicembre debuttarono gli azzurri. Vessati dal compiacente arbitraggio dello spagnolo Emilio Guruceta Muro, che spalancò le porte per la vittoria dell’Uruguay, a segnò due volte nella ripresa. Prima con un rigore di Morales, per fallo (assai dubbio) di Marini su Martinez, e poi con Victorino, rivelatosi per quel che era, cioè un bidone, totalizzando solo 10 presenze (e nessun gol) nel Cagliari 1982-83, nonostante il primato tra i cannonieri nel Mundialito (3 reti). Italia subito eliminata. Ma costretta a tornare in campo nel giorno dell’Epifania per l’inutile 1-1 con l’Olanda di Peters, autore del pareggio dopo il vantaggio del debuttante Ancelotti.
Uruguay in finale insieme al Brasile, che solo grazie alla differenza reti eliminò l’Argentina di Maradona. Entrambe superarono la Germania Ovest, campione d’Europa nel torneo organizzato (male) e giocato (malissimo) in Italia. Sia contro la Selecìon che contro la Seleçao, i tedeschi segnarono per primi. Ma sia gli argentini che i brasiliani recuperarono e vinsero. I primi, 2-1. I secondi, 4-1. In mezzo, l’1-1 nel superclassico del calcio sudamericano con l’unico acuto di Maradona e la risposta di Edevaldo. Il 10 gennaio 1981 accadde il previsto. Primo tempo senza reti. Ripresa scoppiettante. Segnò Barrios. Socrates su rigore pareggiò per i verdeoro. Victorino, ancora lui, firmò la rete del trionfo (2-1).
Il ruolo della P2
Quel successo fu presto dimenticato. Ovunque. Non in Italia. Per due motivi. Il primo riguarda i legami che la loggia Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli, al massimo del potere tra il 1978 e il 1980, ebbe con i regimi di Baires e Montevideo. Il secondo è che grazie alla P2, l’allora tycoon milanese Silvio Berlusconi riuscì a ottenerne la trasmissione nazionale su Canale 5, emittente privata di sua proprietà, rompendo così il monopolio della Rai.
Quanto al primo aspetto, il “Maestro venerabile” ebbe la residenza ufficiale nella capitale uruguayana. Possedeva inoltre decine di appartamenti, un’azienda agraria ed era azionista del Banco Finanziario Sudamericano, come ha scritto il giornalista Mario Guarino nel libro Fratello P2 1816. L’epopea piduista di Silvio Berlusconi. E proprio lì, a Montevideo, c’era uno degli archivi piduisti poi riportati in Italia e scoperti dai finanzieri il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo). Tra gli altri, alla P2 risultarono iscritti l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, morto l’8 novembre scorso dopo essere stato il numero due di Videla in Argentina, e Artemio Franchi (tessera 402), vicepresidente della Fifa (dal 1974, con presidente Havelange), presidente dell’Uefa (dal ’72) e, fino allo scandalo del calcioscommesse del marzo 1980 che ne provocò le dimissioni, capo della Federcalcio. Franchi smentì sempre di far parte della Loggia. Ma probabilmente non fu solo un caso se l’Italia, dopo aver partecipato al Mondiale argentino, affrontò i campioni iridati in amichevole (2-2) a Roma il 26 maggio 1979 e l’Uruguay a Milano (1-0 il 15 marzo 1980). Senza dimenticare l’affidamento a Bearzot della guida del Resto del Mondo vittorioso (2-1) nell’amichevole contro l’Argentina, disputatasi a Buenos Aires il 25giugno 1979, un anno dopo il trionfo iridato della squadra di Menotti.
La loggia, Berlusconi e la fine del monopolio Rai
Ed eccoci alla questione dei diritti televisivi, da cui iniziò la scalata di Berlusconi al potere nazionale mediatico e, in seguito, politico. Il regime di Montevideo, proprio per motivi propagandistici, ebbe tutto l’interesse a che il torneo fosse visto anche e soprattutto in Europa. Secondo la versione dei fatti riportata da Pino Frisoli e Massimo De Luca (Sport in Tv), che è poi quella dello stesso Vulgaris, quest’ultimo offrì per un milione e mezzo di dollari i diritti all’Eurovisione. Una cifra troppo alta, cui seguì una controfferta di 750 mila, concordata con le tv pubbliche che la componevano. Le trattative, su quelle basi, saltarono. Così si inserì Rete Italia, società della berlusconiana Fininvest, e chiuse l’accordo in due giorni per 900 mila dollari.
Secondo un’altra versione (Fratello P2 1816), uomini di Rete Italia andarono a Ginevra e conclusero con Vulgaris l’acquisto per l’Europa per 900 mila dollari, circa un miliardo di lire dell’epoca (due milioni e 250 mila euro attuali). Il tutto per sette partite. Ovvero 150 milioni di lire l’una. Una cifra comunque alta se rapportata ai 20 milioni di lire pagati per ognuna delle 38 gare del Mundial argentino. La Rai si difese dicendo: «Quando l’Eurovisione si è mossa il comitato organizzatore aveva già venduto i diritti. Non c’è mai stata un’asta regolare tra Eurovisione e Berlusconi». In realtà, l’accordo parve tanto più oneroso anche perché Canale 5 non avrebbe potuto trasmettere in Europa (Italia compresa) senza il satellite. Uno strumento, quest’ultimo, gestito da Telespazio, di cui aveva usufruito in Italia solo la Rai, oltre a Telepace, ma solo per trasmettere l’Angelus domenicale in America latina.
La questione – che coinvolse anche il ministero delle Poste e telecomunicazioni, quindi il governo Forlani -, si concluse a una settimana dall’inizio del torneo con un accordo tra Berlusconi e la Rai: quest’ultima trasmise in diretta le partite dell’Italia e la finale, oltre alla differita della altre quattro partite, che furono trasmesse in diretta da Canale 5 (ma solo in Lombardia) e in differita in tutta Italia. Questo accordo ruppe, di fatto, il monopolio della tv di Stato. Per ottenerlo, tuttavia, furono decisive le tecniche mediatiche del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Questi ultimi, insieme al Giornale – ora come allora di proprietà berlusconiana -, da un lato ampliarono a dismisura l’evento-Mundialito, dall’altro aizzarono l’opinione pubblica contro la Rai e il governo, «colpevoli» di non voler cedere l’uso del satellite a Canale 5. Negando così ai tifosi italiani la visione del torneo.
I due quotidiani della Rizzoli, i più letti all’epoca in Italia, erano entrambi controllati dalla P2, come si scoprì qualche mese più tardi. Cioè quando negli elenchi figurarono – tra gli altri – l’editore Angelo Rizzoli (fascicolo 0532) e Franco Di Bella (tessera 1887, fascicolo 655), direttore del Corriere della Sera. Iscritti alla Loggia erano anche Adolfo Orsello, vicepresidente della Rai, e Pietro Longo, segretario del Psdi, il partito cui apparteneva il ministro delle Poste e Comunicazioni Michele Di Giesi. Di più, l’appartenenza di tre ministri (quello della Giustizia, Adolfo Sarti, e quello del Lavoro, Franco Foschi) provocò nel giugno 1981 la caduta del governo Forlani, lo stesso che infine decise di concedere l’uso del satellite a Canale 5 per la trasmissione del Mundialito.
Solo una coincidenza?
Massimiliano Ancona, 41 anni, è nato a Bari. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista dal marzo 2002. Ha lavorato come redattore a Milano ("Corriere della Sera" e "Io donna"), Bari (City) e Roma (Gazzetta dello Sport), dove vive e collabora - tra le altre testate - con il "Guerin Sportivo" e "Linea Bianca".