Washington chiede di sospendere l’invasione dei coloni israeliani nei territori che l’Onu ha assegnato ai palestinesi. Gerusalemme si impegna e subito disobbedisce: 900 nuove costruzioni. E Abu Mazenn, pallido erede di Arafat, si ritira dalla politica. Nel caos trionfano i falchi ma il caos è una trappola per Israele: senza l’aiuto Usa non può sopravvivere.
Israele sfida la Casa Bianca. Non solo allontana i colloqui di pace e il riconoscimento dello stato palestinese che l’illusione di Obama continua a promettere, ma cambia le carte in tavola. Netanyhau, destra dura al governo, aveva promesso di “contenere a poche abitazioni” gli insediamenti di coloni in territorio palestinese. “Programma elettorale, non posso imbrogliare chi mi ha votato”, risponde a Hillary Clinton che fingeva la voce grossa, ma poi si è rassegnata. Se la pace doveva passare per questa “piccola concessione”, ecco l’ultimo sacrificio prima di pianificare la convivenza. Incassato il primo sì, Netanyhau allarga subito i programmi. Aggiunge alle tremila abitazioni altri 900 insediamenti. Rifiuta spiegazioni alla Casa Bianca perché considera la decisione “affare interno israeliano” sia pure in territorio palestinese. Una sfida o un avvertimento a Obama con l’appoggio di chissà quali quinte colonne di Washington? Abu Mazen, tristissimo successore di Arafat, è travolto dalla vergogna della diplomazia fallita. Annuncia il ritiro dalla politica. Non sa più cosa fare. Palestinesi senza un leader e col futuro ormai buio. Israele sembra aver sepolto la speranza dell’indipendenza che da quarant’anni le potenze promettono. Allora Netanyhau superstar? Ma a quale prezzo?
Per capire, ripassiamo la vecchia storia. I giovani non ne hanno mai sentito parlare travolti dai terrorismi che i falchi industriali e gli scamiciati delle due parti continuano a rimproverarsi ogni sera in Tv. Israele diventa stato nel 1948 e le prime parole di Simon Peres, presidente di oggi, nato 85 anni fa in Polonia, amico di Rabin, capo del governo laburista ucciso da un simpatizzante della destra di Sharon; Peres, appena eletto capo dello stato, riassume la filosofia che ispira la sua lunga vita politica: “Si possono uccidere mille persone, ma nessuno può uccidere un’idea e un diritto”. E i diritti ai quali si riferisce sono ancora in contrasto: diritto all’esistenza di Israele, diritto dei palestinesi di vivere in libertà e dignità umiliate nei ghetti dei campi profughi. Non si capisce profughi da dove se li hanno deportati a pochi metri dalle case dove sono nati. Chiedono solo la dig nità: liberi nei territori che “devono essere restituiti”, come impongono dal 1967 le sentenze del consiglio di sicurezza Onu. Ascoltando Peres la pace sembrava vicina. Vicina se si sciolgono due o tre nodi, sempre gli stessi. Primo nodo: Israele deve definire i confini entro i quali esercitare la propria democrazia. Si rifiuta di farlo dal 1948 e i chilometri quadrati dei territori che controlla sono triplicati. Secondo nodo: il governo di Gerusalemme è disposto a trattare coi palestinesi la nascita della loro nazione ma ancora una volta con l’ambiguità di chi agisce in modo contrario alle proposte appena messe sul tavolo. Succede sempre qualcosa subito prima o subito dopo. I confini dello stato dell’utopia palestinese continuano a restringersi per il moltiplicarsi degli insediamenti di coloni sionisti che spezzettano la Cisgiordania in una pelle di leopardo tempestata da villaggi armati e legati con strade costruite requisendo terreni palestinesi, protette da muraglie che corrono su proprietà espropriate ai palestinesi. Intromissioni che si allargano senza fermarsi mai. Altra curiosità: sarebbe interessante sapere con quali sentimenti Shimon Peres aveva vissuto la prigione assurda imposta ad Arafat, col quale aveva condiviso la bella festa del Nobel della Pace. Arafat che prima di morire era stato murato nei suoi piccoli uffici con cannoni israeliani puntati per mesi fino ad una fine che suscita ancora sospetti. E che le parole di Peres abbiano l’aria di parole dispensate alle diplomazie (dietro le parole, quasi niente) lo si capisce per ciò che sta succedendo e nessuno racconta. Non cosa succede nella Gaza arata dalle bombe al fosforo: vita quotidiana dove regna la pace. Israele non smette di costruire barriere per separare nelle abitudini il popolo israeliano dal popolo palestinese. E ai milioni di palestinesi che vivono nell’Israele ufficiale, cittadini con diritti garantiti da Europa e Stati Uniti, quale destino è riservato? La disperazione cresce assieme alle barriere: sta trasformando la patria dei profughi eterni in una bantuland dove perfino le autostrade corrono divise da pareti invalicabili. Per le auto israeliane corsie normali; per i trasporti palestinesi corridoi obbligati, poche uscite controllate armi in pugno. Angoscia sudafricana (Sudafrica prima di Mandela) tra sorrisi e strette di mano. La nuova strada permette ai palestinesi di attraversare la Cisgiordania da sud a nord senza mai entrare nel territorio considerato israeliano anche se le Nazioni Unite dal ’67 ad oggi ribadiscono che si tratta della patria palestinese. Per Gerusalemme e gli insediamenti dei nuovi coloni, uscite proibite. Non ha funzionato in Sudafrica, può funzionare in un piccolo posto dove la bomba demografica vede gli arabi moltiplicarsi e gli israeliani perdere nascite e contare i vuoti di chi se ne va ? Il gioco del “mi allargo” continua. L’alta corte di Gerusalemme ha decretato ritocchi al muro che divide i territori sotto amministrazione dell’Olp, dai territori consacrati senza appello all’invasione dei coloni imposta da Sharon. Piccole modifiche che rendono meno penosi i passaggi dei contadini i cui orti sono separati come nell’Europa delle cortine di ferro. Ma è la strada divisa dal muro il simbolo della non volontà di capire e pacificare, quindi esasperare gli umiliati che non hanno niente da perdere. Si sta asfaltando il deserto dominato dall’insediamento israeliano di Maale Adumin (33mila coloni), ai piedi dell’università Ebraica e del monte degli Olivi: nasce la high way divisa da un muro in pietra bianca, stessa pietra di ogni casa della Gerusalemme costruita dagli inglesi novant’anni fa. Pietra che s’indora al tramonto, ma se l’intiepidirsi del colore intenerisce poeti, storici e turisti, lascia indifferenti i palestinesi ingabbiati in un percorso tempestato dai controlli. Dal loro pezzo di strada nessuna uscita per Gerusalemme. Sono quattro le strade di questo tipo. Altre sei stanno per essere aperte e il labirinto diventa un incubo. Ma non è tutto: mentre le auto dei coloni e di ogni israeliano non hanno l’obbligo di fermarsi ai posti di blocco militari montati per filtrare i palestinesi, i palestinesi che guidano di là dal muro devono inchiodare i freni ogni due, dieci, venti chilometri. In fila nella via crucis dei controlli che stravolgono le ore del lavoro. Nessuna possibilità di cambiare strada, come succede in ogni posto del mondo quando il traffico ristagna. La strada è una e dalla strada non possono uscire se non dalle barriere della bantuland, pochi caselli vigilati.
Ragioni di sicurezza, d’accordo. Ma per quanti secoli dureranno queste ragioni se non le si sgonfia con un vero dialogo e non solo con le armi? Come è possibile che nella Cisgiordania ancora definita “ territori occupati” nelle mappe israeliane, esistano 340 chilometri di strada, costruite su un territorio definito “palestinese” ma che i palestinesi non possono imboccare? Esempio sconsolante l’autostrada 443: unisce Tel Aviv a Gerusalemme e non è formalmente proibita ai veicoli palestinesi, ma le rampe di uscita che portano ai villaggi sono bloccate con sbarramenti di pietra e filo spinato. “Fa parte di una divisione in cantoni dell’intero territorio. Funzionano in Svizzera, perché non dovrebbero funzionare qui?”. Parole che provano a cancellare l’immagine del ghetto mentre annunciano la costruzione di una muraglia lunga 700 chilometri. Il funzionario non risponde alla domanda del giornalista che vuol sapere se gli abitanti del Ticino possono scendere dall’autostrada quando l’autostrada è bloccata. Si aggrappa allo slogan militare: “Sicurezza. Sicurezza per dormire tranquilli. Anche i palestinesi perbene alla fine ringrazieranno”. Resta il problema dei soldi: chi paga l’opera ciclopica che ridisegna non solo i confini ma la vita e la convivenza di palestinesi e israeliani? Quale magnate o quale banca nel mondo dove la finanza trema investono un miliardo di dollari in un’impresa destinata a sgretolarsi nel tempo se la ragione torna e la follia svanisce? Il sospetto di una multinazionale dei muri è confermato dall’annuncio che arriva dall’Arabia Saudita. Comincia a costruire un barriera “tecnologicamente avanzata” lungo ottocento chilometri. Separerà il paese del petrolio dal petrolio di un Iraq disgregato dalla guerra Bush. Per non parlare delle ultime colonne d’Ercole, frontiera Messico-Stati Uniti, tremila chilometri di barriera per impedire ai latini il sogno americano.
Si spera nella rassegnazione, ma le autostrade che dividono non acquietano. Intellettuali e scrittori. dell’altra Israele raccontano nei libri venduti nel mondo di non sopportare la patria dei muri. E ricordano un precedente che non dà speranza: quando gli imperatori di Pechino hanno deciso di difendere il regno con la muraglia che voleva frenare l’impeto dei barbari, i barbari, fino a quel momento i infiacchiti hanno raccolto la sfida e hanno la Cina.
Netanyhau allarga il disegno della destra di Sharon: costruire e costruire per sbriciolare l’identità palestinese. Gran fervore attorno a Gerusalemme, ma una certa stanchezza nella costruzione del muro che corre lungo il Giordano. Troppe città e villaggi arabi, centinaia di miglia di palestinesi devono passare di lì per andare in ufficio, nei campi, all’università; per correr da parenti malati o dalla ragazza che fa sospirare. Centinaia di miglia di vite da bloccare, mentre dall’altra parte della barriera scivola tranquilla la strada riservata ai privilegiati e ai militari. La nuova geografia muraria paralizza il popolo di chi è profugo nella propria casa. Ecco perché politici e tecnici rallentano pensando a cosa potrebbe succedere domani quando i residenti arabi supereranno il numero degli israeliani. Impaurisce l’esempio di Gaza: dopo le bombe al fosforo ricominciano i bombardamenti “normali”. E un milione e mezzo di profughi non può bere, o cucinare, o fare crescere gli orti. L’acqua dell’embargo é ormai una brodaglia salata. Solo l’ultimo capitolo della disperazione quotidiana che ha trasformato il ghetto nell’integralismo armato. Storia che ritorna: i ghetti di Varsavia non muoiono mai.