Vi ricordate la pubblicità della Sip? Sembra archeologia, ma era solo il ’94 e la Telecom non si chiamava ancora Telecom. Massimo Lopez sta per essere fucilato dalla legione straniera e, come ultimo desiderio, chiede di poter fare una telefonata. Quella telefonata divenne talmente lunga da dar vita a una divertente e fortunata serie di spot che ci fece sorridere per diverse stagioni. Si basava su un’idea, geniale nella sua semplicità, che la comicità garbata di Lopez sapeva rendere credibile e vera: una telefonata allunga la vita. Gli italiani, da sempre loquaci e ciarlieri, vi si riconoscevano e si sentivano rappresentati. Era pur sempre uno sketch, ma aveva un suo perché e una sua dignità.
Poi arrivò la Omnitel. E con lei Megane Gale. Un’altra tipica storia italiana. Era il 1999 quando quella ragazzona australiana, perfetta sconosciuta al di fuori dei nostri confini, si spogliò per la prima volta di fronte a un posto di blocco, trasformandosi in 30 secondi nell’icona erotica più desiderata dai nostri maschietti. E fino al 2004 continuò, più spogliata che spigliata, ad arrampicarsi su fallici grattacieli, ad ammiccare negli autolavaggi e a nascondersi la card fra le tette, continuando a popolare le fantasie maschili e le chiacchiere nei bar. Cosa c’era dietro a quella pubblicità? La più becera e squallida tecnica di persuasione, che ha nella carne femminile la sua unica arma e che non si vergogna di dichiararlo. Insomma, non aveva una sua dignità, ma sicuramente si capiva il suo perché.
E oggi? Oggi, insieme alla dignità credo abbiamo perso anche il perché. Perché Christian De Sica parla di perifrastica e di De Bello Gallico a Belen Rodriguez insegnante di latino (lingua, non ballo)? Perché la svizzera Michelle Hunziker non riesce a insegnare l’italiano a John Travolta che interpreta se stesso? Perché Totti lavora a maglia e Panariello fa il verso a Briatore?
Una prima risposta potrebbe essere che tutti questi spot non hanno più nulla di creativo. Sono costruiti scientificamente in un ingegneristico lavoro ad incastro fra una prima parte teoricamente legata alla costruzione del brand (messaggio emozionale) e una seconda parte legata al benefit di prodotto (messaggio razionale): qui, il tentativo di comicità viene svilito alla ricerca di battute che abbiano per forza un legame con l’offerta (mangiare un mega piatto di spaghetti perché mega è l’offerta; parlare 3 lingue, perché 3 sono i mesi di abbonamento che avrai a costo zero…) e non un senso, un motivo, un perché collegato alla marca.
Una seconda risposta al perché di questo imbarazzante e chiassoso carnevale di battute forzate e trasformismi inverosimili credo vada ricercata nel senso di colpa dei pubblicitari italiani. Da noi, la pubblicità si vergogna di essere un’arte minore, se di arte si può parlare, e vive la frustrazione di non potersi prendere quasi mai sul serio. Sdrammatizza, ironizza, volgarizza ogni cosa e se stessa perché non si creda che abbia una sua dignità. Sostituendo le idee di cui dovrebbe alimentarsi con freddure prese in prestito, congela anche la possibilità di costruire un legame vero e duraturo con i suoi fruitori, considerati acquirenti da rimbambire e non persone a cui legarsi.
Ma è davvero impossibile vendere nuovi piani tariffari o promozioni senza scatto alla risposta, costruendo al contempo una lunga relazione di rispetto, fiducia e attaccamento alla marca?
Cinque anni fa, la British Telecom mandò in onda in Inghilterra uno spot che, pur promuovendo i suoi prodotti, divenne di fatto la prima puntata di una delle serie più seguite ed amate dal pubblico inglese. I protagonisti della pubblicità sono Kris Marshall e Esther Hall, due famosi attori che, incredibile ma vero, sono stati pagati per recitare. Cioè, non per fare i testimonial o per interpretare loro stessi in siparietti di finta normalità, ma per fare quello che sanno fare. Attori che fanno gli attori. Nelle loro scene l’uso di internet e del telefono si inserisce in modo naturale e gradevole, ma sempre centrale. Dopo quasi 40 spot mandati in onda in questi anni, il pubblico inglese segue con tale passione le vicende, raccontate con sobrietà e sapienza, della moderna famiglia di British Telecom, che in più di un milione e mezzo hanno risposto all’invito di deciderne la sorte votando su internet e decretando che Jane sarebbe diventata mamma. E così, senza sentimentalismi affettati ma solo con il coraggio di fare una bella pubblicità, Jane e Adam avranno il loro bambino e, questa volta, decidono di non telefonare a nessuno per dare la notizia. Perché, se è vero che come dice British Telecom, “it’s good to talk”, in certi momenti è meglio stare in silenzio.
E riscoprire, insieme alla dignità anche il perché di una pubblicità.
Natalia (con l'accento sulla i) Borri (con la o chiusa) è presidente, fondatrice e direttrice creativa di "The Ad Store Italia", agenzia di pubblicità e comunicazione con sede a Parma, Milano e Bari, ed appartenente al primo grande network internazionale di agenzie indipendenti, fondato a NY nel 1993. "The Ad Store Italia" festeggia quest'anno i suoi dieci anni di vita, all'insegna del messaggio "l'agenzia dietro l'angolo, in ogni angolo del mondo". Natalia Borri ne ha qualcuno in più, ma ha riscoperto una seconda giovinezza da quando si è fatta contagiare dal virus dei "video virali". Ha creato la prima campagna di MTV in Italia, ha inventato la comunicazione di Aprilia con Valentino Rossi e ha vinto premi con Pomì, Air One, Diadora e tanti altri. Odia il fatto di adorare la pubblicità. Ama il fatto di non odiarla troppo.