“Ricordo la Sicilia e il dolore suscita nell’anima il rimpianto. Se sono stato cacciato dal paradiso, come posso io darmene notizia?”
“Poeti arabi di Sicilia”, a cura di Carlo Ruta, edizioni Bi Si, Messina, pagine 170, 9 euro
Forse come nessun’altra regione italiana, la Sicilia mostra tracce di più anime culturali, sovrapposte attraverso il tempo e la cui fusione è ancor oggi un work in progress. A volte questo lavoro assume il carattere di una riscoperta e un recupero, rispetto a una rimozione storica. È il caso della civiltà araba, il cui lascito maggiore non è un monumento come i templi greci o i mosaici romani, né un’immagine archetipica come la bizantina Madonna Odighitria (“Colei che indica la Via”), protettrice dell’intera regione. Si tratta invece di un’ampia produzione di poesia in arabo, risalente al periodo della dominazione arabo-islamica (827-1091) o di poco successiva. Ed è come se la via indicata dalla Odighitria parta da un crocevia complesso, quale la Sicilia nel Mediterraneo.
Riedita nel 2002, nel 1987 usciva un’antologia curata dall’arabista Francesca M. Corrao e intitolata Poeti arabi di Sicilia (Editrice Mesogea, Messina). Con riparatore espediente letterario, la rielaborazione delle traduzioni vi era affidata a poeti italiani contemporanei. Sotto identico titolo, nel 2005 è uscito un CD con testi cantati e musicati dal gruppo Milagro Acustico (Ludos/CNI, Roma). Questa volta, le poesie sono tradotte in dialetto siciliano grazie alla collaborazione della cantante araba Sharifa Hadj Sadok con la scrittrice siciliana Daniela Gambino. Nonostante il titolo sia di nuovo lo stesso, diversa è la ricerca filologica di Carlo Ruta, curatore di un’antologia che ripercorre la presa di coscienza dell’esistenza stessa di una poesia arabo-sicula, fin dalle prime traduzioni in italiano eseguite dal patriota e storico Michele Amari nella seconda metà dell’800.
Pubblicato nel 2001 e oggi riedito con aggiunte dalla Edi.bi.si di Messina, il volume qui in questione racchiude la storia di come una rimozione torni a comunicare e ad essere un’emozione, non solo letteraria. Nella sua introduzione critica, infatti lo storico Ruta ci informa che perfino nel mondo arabo la produzione lirica siciliana ha rischiato di scomparire, a causa della parziale perdita dell’antologia La perla preziosa redatta dal letterato dell’epoca Muhammad ibn al-Qattā‘ (1041-1121), e di un analogo repertorio raccolto dal poeta di origine “isolana” Majbar ibn Muhammad ibn Majbar. Entrambi gli autori avevano esulato in Egitto, dopo la conquista dell’isola da parte dei Normanni. Restò in patria un’esigua minoranza di poeti, non di rado al prezzo di mutarsi in adulatori di corte dei nuovi re, incontrando il disprezzo dei connazionali e correligionari emigrati.
Fra questi ultimi, spicca ‘Abd al-Jabbār ibn Hamdīs. Quello che nella poesia araba preislamica e poi classica era stato il motivo della nostalgia dell’amata – divenuto ormai uno stereotipo – in lui lo diventa della propria terra, in maniera struggente e idealizzata: “Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il rimpianto./ Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni./ Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia?/ Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di questo paradiso./ Oh custodisca Iddio una casa in Noto, e fluiscano su essa le rigonfie nuvole!”
Più incline a una dignitosa rassegnazione, Abū al-‘Arab Mus‘ab al-Qurashī: “Di terra io nacqui e tutta la Terra m’è patria; tutti gli uomini son miei congiunti!/ Non mi mancherà un cantuccio sulla faccia della Terra”.
A queste partecipi traduzioni rispettivamente di Francesco Gabrieli e di Amari, qui appena semplificate, se ne affiancano varie altre di arabisti non meno illustri, quali Celestino Schiaparelli, Ignazio Di Matteo e Umberto Rizzitano. Certo, essi non erano poeti ma studiosi. A volte, la lingua adottata può suonare arcaica; la forma del verso, poco lirica, se non volutamente prosastica. Tuttavia, sussiste il loro contribuito al recupero della cultura araba siciliana non soltanto nell’ambito di quella italiana ed europea contemporanee, ma paradossalmente anche di quella araba moderna.
Non a torto il critico palestinese Edward Sa‘id esprimeva un giudizio severo sul cosiddetto Orientalismo, titolo peraltro di un suo noto saggio. Eppure, una ulteriore storicizzazione e approfondimento attesta una volta di più che non solo la storia tout court va vista in maniera dialettica, ma anche – probabilmente, anzitutto – quella della cultura. Da buon gramsciano, lo stesso Sa‘id ne era consapevole. Del resto, non pochi poeti palestinesi si sono palesemente ispirati ai precedenti di Ibn Hamdīs e di altri esuli siciliani, in virtù di un’affinità storica oltre che culturale. L’angoscia della separazione è un sentimento e tema universale, che non conosce età o confini. Ciò che noi possiamo fare è evitare che a una lacerazione esistenziale si aggiunga una storica rimozione.
Pino Blasone insegna filosofia. Ha compiuto studi superiori e di perfezionamento a Roma, Venezia, Il Cairo e Tunisi. Con altri, ha tradotto "L'espansione musulmana" di R. Mantran, Mursia, Milano 1978, e ha curato l'antologia "La terra più amata. Voci della letteratura palestinese", Manifestolibri, Roma 1988 e 2002. Ha curato "Lontano da Baghdad" saggio autobiografico di Thea Laitef, Sensibili alle Foglie, Roma 1994. Ha introdotto la traduzione di "Il Corano" eseguita da H. R. Piccardo, Newton Compton, Roma 1996. Ha curato le antologie critiche "L'immaginario mutante" (Synergon, Bologna 1997), "Polemiche letterarie nel secolo dei Lumi" (Ponte alle Grazie, Firenze 1992), "Postpoesia" (ILA Palma, Palermo 1987). Già collaboratore di "Alfabeta" e dei servizi culturali del TG3 RAI, collabora alle riviste on line dei Dipartimenti di Filosofia delle Università di Venezia e di Bari, della Terza Università di Roma, del Dipartimento di Italianistica dell'Università del Galles.