Il 23 settembre del 1973 – dodici giorni dopo il sanguinario colpo di stato del generale Augusto Pinochet – moriva in Cile Pablo Neruda (al secolo Ricardo Elezier Neftalí Reyes Basoalto). Per tutti, morì per un cancro alla prostata che lo affliggeva da tempo. “Per una dolorosa coincidenza, il poeta e la democrazia morivano insieme”, scrisse in La magia in azione Antonio Skármeta, amico e allievo del Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Una morte terribile, in bilico tra gli insopportabili dolori del corpo e quelli altrettanto insopportabili del suo animo straziato dall’orrenda macelleria che i militari golpisti stavano mettendo in atto nel Paese, oltre che dalla fine del suo grande amico Salvador Allende.
Ma recentemente è apparsa una notizia, e cioè che tra le molte migliaia di assassini perpetrati dagli sgherri del dittatore potrebbe annoverarsi proprio quello di Neruda, ucciso da un’iniezione letale il 22 settembre. A dirlo è Manuel Araya, ex autista del poeta, il quale, stranamente, e solo ora, avanza questa ipotesi.
Abbiamo girato la questione proprio ad Antonio Skármeta, in questi giorni in Italia per la presentazione del suo ultimo, delizioso libro, Un padre da film (Einaudi) e per una inedita e applauditissima performance al Festival Internazionale di Roma durante la quale ha letto (e interpretato) un capitolo del suo nuovo romanzo I giorni dell’arcobaleno.
Cosa ne pensa di questa notizia che ha fatto il giro del mondo? Al momento non saprei sensatamente e onestamente cosa dire. Non ero presente alla morte del poeta. Per cui credo che la cosa più giusta sia aspettare i risultati delle analisi dopo la riesumazione della salma. La Fundación Pablo Neruda si è schierata contro l’apertura del caso, dicendo che non ci sono assolutamente prove contrarie alla versione ufficiale.
In effetti, si è sempre parlato solo di una malattia in fase terminale. Neruda negli ultimi giorni aveva avuto un forte peggioramento causato anche, sicuramente, dall’estrema depressione in cui era caduto dopo le notizie del golpe e della morte di Allende. Forse non aveva più voglia di vivere.
Ma la testimonianza dell’autista?
È strano, molto strano, che a distanza di anni, improvvisamente, venga fuori questa nuova “verità”. E poi, soprattutto, dopo la morte della moglie di Neruda, Matilde, che è stata al suo fianco fino all’ultimo momento. Teniamo conto che si è anche messo in dubbio il suicidio di Allende, quando è stato proprio il suo medico personale a testimoniare al riguardo. Mi pare che queste testimonianze “a posteriori” siano più figlie del desiderio di far notizia che di ricerca della verità.
E quindi le esclude?
No. Non escludo nulla. Durante il periodo della dittatura di Pinochet può essere successo di tutto. La polizia segreta ha avuto carta bianca fin dal primo momento. E ha commesso atrocità indicibili. Per cui non si può escludere nemmeno un’ipotesi simile. È opportuno e giusto investigare su quegli anni di terrore, di torture, di desaparecidos e di morti senza nome. Ma secondo me, più che le “rivelazioni” dell’autista conta il parere della moglie Matilde (morta nel 1985), che non ha mai dato a intendere di sospettare che suo marito fosse stato assassinato. Ed è stata sicuramente lei la fonte più attendibile. Su questo non c’è dubbio. Inoltre, qualsiasi sia stato il modo in cui Neruda e Allende siano morti, il loro ricordo è così forte e vivo nell’opinione di tutti che non può essere scalfito da nessuna nuova ipotesi. E anche nel caso si provasse l’azione di terzi nella loro morte, non sarebbe “a minor gloria” loro, ma “a maggior ignominia” di Pinochet e dei suoi servi.
Paolo Collo (Torino, 1950) ha lavorato per oltre trentacinque anni in Einaudi, di cui è tuttora consulente. Ha collaborato con “Tuttolibri” , “L’Indice” e “Repubblica”. Ogni settimana ha una rubrica di recensioni su "Il Fatto Quotidiano". Curatore scientifico di diverse manifestazioni culturali a Torino, Milano, Cuneo, Ivrea, Trieste, Catanzaro. Ha tradotto e curato testi di molti autori, tra cui Borges, Soriano, Rulfo, Amado, Saramago, Pessoa.