VIOLETTA BELLOCCHIO, SONO IO CHE ME NE VADO, Mondadori 2009
Spiace dirlo, ma capita a volte di rimpiangere i soldi spesi per l’acquisto di un libro. È il caso di questo romanzo di Violetta Bellocchio, che ho letto fino all’ultima pagina (352!) solo per vincere una sfida con me stessa. Mai ho trovato, spiace dirlo di una giovane scrittrice, tanta miseria di contenuti, tanta povertà di linguaggio e tanta presunzione. A partire dalla storia – decisamente insignificante e con tanti lati che restano oscuri (e non, si sospetta, per precisa volontà dell’autrice) –, bastano poche pagine per capire che chi scrive non sa dove andare a parare e si è imbarcata in un’impresa ben al di sopra delle sue possibilità.
Ben presto cominciano infatti le spirali di frasi ad effetto, singhiozzate in una prosa sincopata e quasi isterica, che si aggrappa a una grandinata di punti, interruzioni di righe, maiuscole e corsivi enfatici nel tentativo di evocare chissà quali significati nascosti, destinati a rimanere tali – ahimè, sino alla fine – per l’incauto lettore. In base, forse, all’errato principio che meno si capisce, più si crede che ci sia da capire. Serve un esempio? C’è l’imbarazzo della scelta, ma solo dopo aver brevemente spiegato il contesto.
Per motivi piuttosto fumosi, che possono essere riassunti nell’incompatibilità con la nuova moglie del padre, la protagonista se ne va di casa, con l’intenzione di aprire un bed & breakfast in Toscana (in una casa di sua proprietà, sia chiaro, perché, chi non possiede un casale in Toscana?). Lì conosce un tipo – ovviamente sciroccato all’ennesima potenza, dunque adattissimo a lei – che assume come tuttofare e che una notte, soffrendo d’insonnia, la va a svegliare e le propone come simpatico passatempo di lanciare sassi contro le finestre dei vicini, partiti per un paio di giorni. Ecco l’indimenticabile descrizione del momento:
“Sean mi passa la prima pietra.
Scelgo la finestra. Primo piano. Non troppo facile, non troppo difficile.
La prima pietra prende un tubo dell’acqua.
La seconda pietra vola sopra il tetto.
Mi snodo la spalla. Aggiusto il tiro.
La terza pietra descrive un elegante semicerchio, prosegue verso la finestra, la centra, il vetro va in cento pezzi.
Trattengo il respiro.
Per quindici secondi tutto è fermo.
Poi.
Interruttore che scatta.
Riapro gli occhi.
Luce dalla finestra. Quella finestra.
Rumore di piedi a terra.
Sean guarda me.
Io guardo Sean.”
E avanti così, a questo ritmo, fino alla fine. Ma se ancora non bastasse, si potrebbe parlare dell’assoluta inconsistenza dei personaggi, figurine smunte che si aggirano sperdute in quelle pagine così piene di spazi bianchi. Se quella di raccontare persone, sentimenti e vicende è un’arte, la Bellocchio dimostra purtroppo di aver ancora bisogno di molto esercizio, non riuscendo a emozionare in nessun momento e dando piuttosto l’impressione di cavarsela meglio con gli sms che con la letteratura.
Al lettore che, dentro e fuori dal treno, non può non sentirsi innervosito da frasi smozzicate, fastidiose come accecanti colpi di flash, resta l’amarezza di dover chiudere pagine ancora intonse, ma la soddisfazione di poter dire: “Sono io che me ne vado”.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.