Singhiozza e piange mentre lancia il suo grido di accusa la leader Guaranì, vicepresidente della CIDOB (Federazione dei Popoli indigeni amazzonici della Bolivia). Non potrebbe essere altrimenti, visto che il destinatario delle sue accuse è il presidente indigeno del suo paese Evo Morales. Con la voce rotta dall’emozione, di fronte ad un centinaio di delegati dei popoli indigeni di tutto il bacino dell’Amazzonia riuniti a Manaus a metà agosto, Nelly Romero punta il dito contro il tradimento di Evo, reo di perseguire politiche di sviluppo ed estrattiviste che contraddicono il suo essere indigeno e l’impegno per i diritti della Pachamama. Siamo alla vigilia della marcia dei popoli indigeni boliviani contro il progetto di autostrada sostenuto dal governo di La Paz e finanziato dal BNDES (Banca brasiliana per lo sviluppo economico, un gigante finanziario che investe ormai non solo in America Latina, ma anche in Africa) che attraverserebbe la terra indigena ed area protetta del TIPNIS. Un attacco ai diritti dei popoli indigeni, secondo i delegati intervenuti a Manaus.
Né il primo né l’ultimo, stando ai piani del governo boliviano di aumentare l’estrazione di idrocarburi e metter mano agli importanti giacimenti di litio che potrebbero rappresentare una necessaria fonte di entrate per irrobustire il bilancio dello stato. Restano sullo sfondo le leggi adottate dal governo di Evo, ad esempio quella sulla sovranità alimentare che prevederebbe l’uso massiccio di OGM o quella sui diritti della Madre Terra che – a detta di molti leader indigeni – rischia di rafforzare l’autorità del governo centrale negando loro i diritti all’autodeterminazione ed all’uso sostenibile delle proprie risorse.
Il grido di dolore di Nelly non è isolato. Segue quello di Raoni Kayapò, leader leggendario degli indios dell’Amazzonia brasiliana, lo ricordano tutti accanto a Sting, due decenni or sono nelle campagne a tutela di quello che allora veniva considerato il “polmone verde del pianeta”. Nel suo costume tradizionale, il labbro inferiore deformato da un disco di terracotta, Raoni urla la rabbia del suo popolo, rivolta al governo di Dilma Rousseff, la “iron-lady” che nel corso della sua campagna elettorale aveva messo al centro l’impegno di portare a fine la megadiga di Belo Monte, nel rio Xingù, la terza più grande del mondo dopo quella delle Tre Gole e quella di Itaipù. Un mostro di cemento nel cuore dell’Amazzonia che provocherebbe il reinsediamento forzato di decine di migliaia d’indigeni, l’espulsione dai loro territori ancestrali, insomma il rischio di un genocidio culturale vero e proprio.
Si narrava delle Tre Gole che l’idea fosse nata da un poema di Mao, da un suo sogno, quello di un monumento eterno al progresso ed alla grandezza della rivoluzione. E Belo Monte (“Belo-Monstruo” come la chiamano da quelle parti) diventerà l’icona del Brasile del futuro, gigante economico, con aspirazione a diventare superpotenza regionale e globale. Tornano alla mente le immagini di venti anni fa, dello storico incontro di Altamira, nel quale una vecchia leader indigena non esitò ad accarezzare con il filo della lama del suo machete il viso di un funzionario della FUNAI, la Fondazione Nazionale per l’Indio (Sic!), sempre in riferimento all’impatto devastante delle megadighe che si volevano costruire in Amazzonia.
Nella sala del Parlamento dello Stato di Amazonas, echeggiano poi i suoni striduli della lingua shuar, di un rappresentante di quel popolo dell’Amazzonia ecuadoriana, il viso disegnato con i colori di guerriero incorniciato da un copricapo di piume variopinte, che accusa il governo di Rafael Correa per l’ampliamento della frontiera del petrolio nell’Amazzonia. Un governo che oggi procede con determinazione alla costruzione del canale Manta-Manaus che tra qualche anno dovrebbe collegare la vecchia capitale del ciclo della gomma e le terre ricche di petrolio, alla costa del Pacifico, porta verso i grassi mercati d’Oriente, Cina in primis.
L’asse multimodale Manta Manaus è parte di una rete di infrastrutture e megaprogetti, IIRSA, il cui obiettivo è quello di costruire lo scheletro per l’integrazione economica e commerciale del continente. Insomma, in una sequenza ravvicinata sono venute alla luce tutte le contraddizioni che stanno attraversando il Continente Sudamericano, le tensioni e le ambiguità che sono andate sviluppandosi nel corso degli ultimi anni nei quali in molti paesi si sono insediati governi progressisti, con il sostegno diretto o indiretto dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. Governi progressisti partiti con grandi obiettivi di rielaborazione dei propri paradigmi economici e sociali di riferimento, e di costruzione di modelli di sviluppo alternativi.
Quegli stessi governi che oggi si trovano di fronte ad un’impasse relativa ai costi ambientali e sociali delle proprie politiche di sviluppo, per il doveroso aumento della spesa pubblica per l’educazione, la salute, i diritti di cittadinanza, ma necessariamente coperti dalla valuta prodotta dall’esportazione delle proprie materie prime. Petrolio e derivati, minerali di cui sono ricche le terre ancestrali dei popoli indigeni amazzonici ed andini, risorse necessarie per tener fede ai propri impegni elettorali e assicurarsi il consenso popolare, anche a costo di ipotecare il proprio futuro. l’Ecuador ha già ricevuto due miliardi di dollari dalla Cina come pagamento anticipato per le prossime forniture di petrolio, il Venezuela, come confida il sociologo di sinistra Edgardo Lander, ben 10 miliardi che andranno ripagati in natura negli anni a venire.
A Manaus i delegati indigeni erano giunti per discutere di saperi ancestrali, di tutela delle foreste di fronte ai mutamenti climatici, dei preparativi per la Conferenza Rio+20. L’incontro si terrà il prossimo anno in Brasile per celebrare il ventennale della storica conferenza ONU su Sviluppo ed Ambiente, un’importante occasione per fare il punto sulla governance ambientale globale, e sullo stato di attuazione degli impegni allora presi, tra cui quelli inscritti nella Convenzione sulla Biodiversità e sui Cambiamenti Climatici. Vent’anni fa lo sviluppo sostenibile era diventato il mantra, un termine che poi sarebbe stato utilizzato indistintamente da quelle imprese multinazionali e movimenti ambientalisti, governi e organizzazioni di base.
Se allora il cerchio da quadrare era quello tra sviluppo e ambiente, tra economia ed ecologia, con risultati ambivalenti, ma certamente non determinanti, (basti pensare allo stato catatonico del negoziato internazionale sul clima) oggi l’ordine di priorità deve cambiare. Sono proprio gli indigeni ad offrire un contributo importante, quegli stessi che oggi la vulgata definisce gli “imprenditori verdi” per eccellenza, attori di spicco della “Green Economy”. Un contributo che inverte l’ordine delle priorità e la prospettiva di partenza. Non “Green Economy” o crescita “sostenibile”, né false soluzioni all’urgenza di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, come il mercato di carbonio o di permessi di emissioni. Prioritario dovrà essere invece il riconoscimento del debito ecologico, e della centralità dei diritti umani come chiavi di volta per una trasformazione responsabile del modello economico e di produzione.
Torna con forza la contraddizione tra debito ecologico e debito sociale che oggi è al cuore dell’impasse nella quale versano i governi progressisti del continente. Accumulare un debito ecologico per le generazioni a venire per saldare un debito sociale verso le generazioni attuali, aprendo così un’altra contraddizione, quella tra diritti delle comunità e un supposto interesse generale. Ascoltando i rappresentanti delle comunità indigene del Rio Napo in Ecuador che verranno impattate dall’idrovia Manta-Manaus, viene a mente la Val di Susa. Molte le similitudini: una comunità che esprime il suo dissenso da un’opera con alto impatto ambientale e sociale e che non porterà alcun beneficio alle proprie condizioni di vita. Un megaprogetto che però è parte di un progetto multinazionale volto a avvicinare territori di origine di materie prime o di produzione ai mercati di consumo su assi orizzontali che collegano Est ad Ovest e viceversa.
Non c’è via d’uscita se la prospettiva di fondo resta quella della crescita quantitativa illimitata, e la spinta ad accelerare il commercio globale di materie prime, in assenza di una strategia di lungo periodo che preveda invece la possibilità di produrre risorse finanziarie al di fuori di una monocultura estrattivista. Da una parte quindi il diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni e dall’altra l’esercizio della sovranità economica da parte di governi centrali, che non esitano a ricorrere alla repressione poliziesca. Sono circa cento i leader indigeni ecuadoriani accusati di terrorismo dal governo Correa, cinque leader peruviani di AIDESEP, tra cui il Presidente Alberto Pizango dovettero a suo tempo fuggire in Nicaragua, dopo la strage compiuta a Bagua da parte dell’esercito peruviano contro gruppi di indigeni mobilitati per il diritto alla loro “territorialità”.
Da noi li chiamiamo – con un termine usato ed abusato – territori, nel linguaggio indigeno il concetto è espresso con il termine “territorialidad” (non terra, si badi bene). Non diritto alla proprietà della terra, bensì diritto alla sovranità sui propri territori ancestrali. È interessante notare che da questa rivendicazione, che innerva le discussioni di Manaus, non ne consegue una rivendicazione di autonomia politica, ma semmai la possibilità di costruire stati plurinazionali e multietnici. Non si spiegherebbe altrimenti la recente formazione di un fronte ampio progressista e di critica al governo Correa che vede assieme formazioni politiche, movimenti sociali urbani e “meticci” e le federazioni di popoli indigeni, o il progetto di formazione di un partito progressista con forti riferimenti indigeni in corso d’opera in Perù.
Proprio in quel paese dove la vittoria di Ollanta Humala può rappresentare una nuova opportunità o un ennesimo fallimento qualora non riuscisse a sciogliere i nodi nei quali sono rimasti intrappolati gli altri presidenti progressisti, da Evo, a Correa a Dilma, ovvero: debito sociale-debito ecologico, economia-diritti, territori-interesse generale, locale-globale. Nodi che riemergono in parte anche dalla storia di Manaus, già capitale mondiale del ciclo della gomma. Un lusso durato finché un inglese senza scupoli si rubò la pianta di Hevea brasiliensis per ripiantarla nella colonia della Malesia Peninsulare e produrre gomma a basso costo, mettendo fuori mercato quella estratta in Amazzonia.
Arrivò poi Henry Ford, che aveva bisogno di quella gomma per i pneumatici delle sue auto, fondò una città modello al centro dell’Amazzonia, Fordlandia (neanche fosse la trama di un film di Herzog), caduta in disgrazia dopo qualche anno, giacché il clima tropicale e la foresta non risultarono addomesticabili ai ritmi di produzione fordista. Di quel passato restano edifici raffinati, il Teatro Amazonas, il vecchio mercato del porto e la dogana, edifici smontati in Inghilterra e rimontati pezzo per pezzo, il maestoso ponte di ferro. Tra le memorie di una città con un passato florido ma effimero emergono con violenza, visuale e fisica, la miseria e la povertà che neanche la Zona Libera di Manaus, con le sue produzioni esentasse di materiali elettronici, abbigliamento a basso costo per i mercato globali, ha potuto o saputo lenire. E che oggi cerca più fortuna come porto di transito verso la Cina.
Già senatore dei Verdi e di Rifondazione Comunista, Francesco Martone è un attivista non governativo e un ambientalista. Dopo aver lavorato per Greenpeace Italia e International, è stato tra i creatori della Campagna per la Riforma della Banca mondiale e della rete Lilliput.