“Democrazia”, “libertà”, sono gli astratti in uso perpetuo ai potenti che governano il mondo, alle cancellerie che ne amministrano le politiche. Loro possono commuovere il mondo, illudere le moltitudini. “Tutti berlinesi” – il grido kennediano sotto il Muro di Berlino – ma nessuno grida sotto il Muro di Israele. Tutti democratici, etnocomunitari e cantonalisti (Cantoni svizzeri), quando facevano a pezzi la povera Jugoslavia [Sarajevo si preparava all’assedio dei quattro inverni]. Tutti in silenzio oggi per Benghazi. La capitale della Cirenaica viene bombardata, i suoi abitanti stanno per essere stretti nell’assedio. Il petrolio che viene dalla putrefazione del mondo (non è metafora) e il danaro dai pisciatoi. Vespasiano istruiva il figlio Tito: pecunia non olet. Sempre danaro, sempre roba. In Libia adesso e là, nella non così remota guerra di Jugoslavia.
In Sarajevo assediata, Susan Sontag, davanti al civico 55 della Titova – il passaggio ostruito da un muro di macerie che porta al Kamerni Teater e alla associazione Napredak (progresso) – tiene una breve conferenza stampa. Anne Liebovitz fotografa. “Mi sono battuta contro i bombardamenti in Vietnam, contro l’intervento americano nel mondo, ma adesso chiedo l’intervento degli aerei della Nato sulle linee degli assedianti, sulle batterie dei mortai e sui tank interrati che dal Trebevic, dal Poljene colpiscono la città”. Settembre 1993. Come si è arrivati a questo?
Nessuno dei narratori della fine della Jugoslavia e dell’assedio di Sarajevo si domanda, ancora oggi, perché si è arrivati a questo: a fine giugno 1991 – i carri armati al confine di Gorizia, Trieste una città deserta, evacuata -, ai fuochi sparsi di dieci anni di guerra civile nei Balcani, a una società spostata, ai morti uccisi dai cecchini nelle strade di Sarajevo, ai monumenti alla Resistenza dinaminati dai paramilitari paraghisti in Erzegovina, al tunnel da Hrasnica a Dobrinja sotto l’aereoporto di Sarajevo, all’immenso markale fuori le mura sotto il monte Igman, ai lumi di bottega, agli arsenali di cibo, di armi e di merci per la città assediata in mano al comandante di Dobrinja e a bande semiregolari dell’esercito – nella cupola scura della notte attraversata dai traccianti luminosi. Piccole fini di un mondo: la moneta cade, la sanità cade, l’istruzione, le comunicazioni, i semafori ai crocevia cadono, la posta, l’auto a benzina, lo Stato, le pensioni, le sorelle del poeta Izet Saraijlić cadono consunte dagli stenti e dal rigore degli inverni nella città assediata. E i bei versi di Abdulah Sidran in Zašto tone Venecija (Perché cade Venezia): “…Venezia affonda. L’Europa affonda. Affonda la culla,/ con il bambino che c’è dentro./ Affondano i continenti. Affonda la rosa nel/ vaso di vetro di Murano. Affonda Murano. / Affonda la stanza dell’albergo”.
La piccola Jugoslavia di Slobodan Milošević chiede una Grande Serbia, non “più socialismo”, non “diverso federalismo”. Ivan Stambolić già leader del partito comunista, già presidente della Serbia, padrino politico del satrapo conclude: “è un traditore”, “è salito su un cavallo pazzo e non sa dove lo porterà”. Il 25 agosto 2000 Stambolić mentre fa footing nel “Parco delle Cerbiatte” sulle colline di Belgrado viene sequestrato e scompare dentro un pulmino bianco. I suoi resti sepolti, sotto la calce viva, nella Fruška Gora. Il sequestro e l’omicidio ordito, nei mesi cupi del loro declino, da Slobodan e dalla moglie “Marija” – Mirijana Marković – “madre di tutti i serbi”.
I fatti, le immagini spingono il racconto e non trova spazio la risposta alla domanda: come mai sino a qui? Eppure la trama è chiara: i comitati e le associazioni di esiliati in America Latina, i “profughi per il ritorno”, gli ustaša incanalati nei primi mesi del 1945 nelle vie di fuga organizzate dal Vaticano, i loro figli, gli espropriati dal comunismo e i loro eredi, i proprietari nazionalizzati, i loro figli, i titolari di precarie proprietà che ora le rivendicano con i delitti, e quelli che rastrellano titoli di proprietà negli uffici notarili di Spalato, e quegli uffici in piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, appostati alla sbarra di confine del paese socialista a proprietà pubblica in agonia: Mediaset e Intesa, Ligresti e le Generali, Telecom e Impregilo, Gabetti e Danone.
Nelle cronache dell’assedio e della guerra civile nessuno affronta il problema centrale, il motore di tutto: la destinazione e la fine della proprietà pubblica nella morente Jugoslavia socialista. Un paese che per mezzo secolo non ha avuto la proprietà privata è impensabile. Tutto passa sotto il cielo di sangue delle guerre etniche. Dicono chiesa, religione, tradizione, lingua, luogo, radici e parlano di proprietà collettive da incamerare, di industrie da sezionare, di compagnie telefoniche, elettriche, del gas da privatizzare, di case di cui impadronirsi, di terre, di grandi cooperative agricole dello stato da spartire, di coste da devastare, di fiumi da inquinare.
È un assalto selvaggio alla proprietà pubblica, dal suolo, all’etere, dai fiumi alle ferrovie ai giornali alla televisione di stato. Nessuno presidia il principio e l’utilità di una proprietà indivisa, di tutti, non lo fanno neanche gli studenti belgradesi primi a insorgere contro Milošević nell’inverno del 1996, cortei nel gelo “protiv mašina”, contro la “macchina”, l’apparato, le ali del partito riciclate nelle opzioni comunitarie. Ai giovani che combattono e muoiono per la difesa di Sarajevo Alija Izetbegović – il presidente devoto, va in moschea con la tunica bianca, vive in un piccolo appartamento di casa popolare ed è padre di Bakir, l’architetto che gestirà i fondi di tutta la ricostruzione – consegna lettere di credito mensili di qualche centinaio di marchi, serviranno al riscatto della casa in uso a fine guerra.
Nel dicembre 1995, firmata la pace di Parigi, comincia il mercato delle “lettere di credito”, vengono rastrellate alla metà, a un quarto e meno del loro valore nominale. Soldi subito, pochi, una manciata, per chi è vivo e deve sopravvivere, emigrare e per eredi storditi, una montagna di carta straccia immessa poi nel mercato immobiliare, acquistando alle aste truccate i grandi stabili di stato, quartieri, alberghi come l’Holiday Inn, quello dei giornalisti nell’assedio, la restituzione dei beni alle Chiese, anche alla compagnia dei francescani – repubblicani e unitari nella Bosnia centrale, la “Srebrena provincia” -, secessionisti a Mostar e nei territori dei sacri mercati della Madonna di Medjugorije. Sidran dice: “La guerra l’hanno voluta tutti, per spartirsi la Jugoslavia. Sono tornati quelli che avevamo cacciato nella Liberazione.”
Il direttore della gloriosa testata Oslobodjenje si vede a cena con mafiosi italiani – nei ristoranti della movida sarajevese postbellica -, il proprietario di nuove testate come Dnevni Avaz è a capo della speculazione edilizia selvaggia. I Balcani sono messi al sacco. Il paese è immobile, bloccato dagli assembramenti comunitari e dalle etnocrazie, la società – che si è autodecimata in una guerra decennale – è senza scuole, senza assistenza, senza casa, senza lavoro. “Da noi c’è l’uomo in transizione, l’uomo nuovo della ex-Jugoslavia e dei Balcani. Sulla scala evolutiva di Darwin è a livello del topo: sopravvivere, rubare, uccidere. La sua consapevolezza sociale è a zero, la solidarietà a zero, la gente detesta l’uomo che fa del bene, l’uomo con dei sentimenti deve essere ucciso. Nella transizione non esistono emozioni, non c’è amore, non c’è amicizia. Questo è l’uomo nuovo, l’uomo-topo, l’uomo-transitivo”, Sidran sentenzia.
Karim, scrittore e giornalista, presenza luminosa nell’assedio di Sarajevo, laico, giovane di straordinaria intelligenza, ucciso da una scheggia sulla Kranjćevićeva nell’ultima stagione di guerra. La madre, esponente della neoborghesia croata della città, ne celebra di continuo il lutto, lo scandalo della morte “lui era ricco!”. Le Tracce della guerra (Tragovi ratni) – certe scatole piene di resti, di oggetti, di memorie, di ferri di un’età del ferro e di fotografie d’antan – del pittore Edo Numankadić, sono la scia di sangue, la genesi proprietaria, la storia della roba e del suo orrore. Tutto muta, torna indietro. Riprende il “romanzo familiare”. Gli scrittori pensano che sia importante la storia di una famiglia, a cominciare dalla propria.
“Il nonno diventò proprietario di una quarantina di dulum (ettari) di terra fertile lungo il corso del fiume Trebišnjica e sul versante montenegrino acquistò parecchi ettari di terreno boschivo e da pascolo.” L’incipit de La città nello specchio di Mirko Kovać – aveva destato più di un interesse a fine anni Sessanta con il romanzo epistolare La vita di Malvina Trifković. Un romanzo familiare che inizia con una elencazione proprietaria è un classico nelle letterature occidentali, ma è novità nei Balcani. Ecco di nuovo, nel doposocialismo: la terra, la casa – in pietra – il bestiame a segnare le cadenze, lo scopo, la buona o la cattiva sorte, del sodalizio familiare. Precedenti però di segno opposto. Un piccolo capolavoro è Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale di Bora Čosić, pochade esilarante, storia di una famiglia piccolo borghese che fa il percorso inverso: dal liberismo al socialismo. Anche Abdulah Sidran – tutti alla ricerca identitaria – sta portando a termine il “romanzo dei Sidran”.
La scena è occupata da una famiglia operaia – due fratelli, zii dell’autore, morti nella resistenza, uno, il tipografo, a Jasenovac in un tentativo di fuga a nuoto nella Sava, il terzo fratello, il padre, metalmeccanico, attivo nella clandestinità, comunista, eminente uomo politico nelle istituzioni della Repubblica di Bosnia Erzegovina (ministro del Lavoro) nel dopoguerra, incarcerato con sodali come cominformista nell’aprile del ’49 [“con tutto me stesso amo più la merda russa della torta americana (Mihajl)!”], recluso nel campo di lavoro duro di Goli Otok (Isola Nuda). È un libro di affetti, di costume e di Storia, per una famiglia vincolata non dalla proprietà, ma da un progetto di nuova umanità, dalla fondazione di un nuovo Paese.
Non è in vista una Storia in cui credere, soprattutto perché non la costruiamo. Un giovane storico sollecitato a prendere in esame – a cominciare dalle carte catastali – un quartiere di Sarajevo, una cooperativa o un grande stabile già di Stato, per narrarne i passaggi di proprietà, non sa e non vuole cominciare. Ma è affidabile la proprietà privata? Gli immobili non smottano, ogni giorno qualche metro, verso valle? La bolla immobiliare si sgonfia sibilando, è cominciata la crisi del principio un mutuo una casa. Pochi decenni fa si lottava anche qui, anche da noi, per il diritto alla casa, per l’equo affitto. Il movimento operaio ha perso la sua innocenza cedendo la compatibilità delle lotte e il diritto alla proprietà pubblica.
Così è finita la Jugoslavia. I giovani soldati che uscendo dal budello del tunnel per l’Igman dalle mille battaglie dicono “tornare a Sarajevo torneremo, con le nostre gambe o nelle bare”. Le donne che raccolgono l’erba lungo i fossi nell’assedio e la cucinano. Quelli di Omarska, scheletri dietro i reticolati con le costole fuori e sui muri del porto fluviale sulla Sava di Brčko le fila dei buchi dei proiettili delle fucilazioni di massa. E “chi ha stuprato chi”; “chi ha bombardato chi”; chi ha preso cosa; e quelli dell’Onu che prelevano con i blindati per i loro festini dai bordelli serbi – le javna kuća, le case pubbliche – le donne musulmane prigioniere coprendo i mezzi con lenzuola [Borislav Herak al processo]; e i morti gli stroppiati in gruppo – alle fila dell’acqua, del pane, al mercato – per i colpi di granata; e il comandante Juka – Jusuf Prazina – gangster e capobanda nella prima difesa di Sarajevo, demiurgo e garante nella divisione etnica della città; e “faremo un grande monumento per ricordare Vukovar”; e duecentocinquantamila morti; e trentamila scomparsi su cui si accende il pendolo del “mercato dei resti” nella Bosnia del dopoguerra; e il ricordo – il rimorso – di quella coppia anziana di contadini serbi del Kosovo – profughi nei campi di raccolta attorno a Belgrado -, dimenticati da Dio e dagli uomini, lei minuta con lo scialle nero sulla testa che presto morirà – “avevamo la casa di pietra” -; e tutti nella sanguinosa tempesta tranne i futuri proprietari, [“dieci anni di propaganda televisiva hanno manipolato del tutto la gente” Sidran; “il nazionalismo è un coltello puntato alla schiena del popolo” Danilo Kiš] tutti dentro la morte violenta di un Paese celebrata dai suoi stessi abitanti, per la roba.
Piero Del Giudice, giornalista e scrittore, inviato a Sarajevo durante l'assedio della città, è autore di articoli, libri, saggi, documentari televisivi sulla ex-Jugoslavia ("Sarajevo!" edizioni del Gottardo, Lugano; "Romanzo balcanico", Aliberti editore, Roma). Del Giudice lo fa a partire da "Sarajevo mon amour", il libro-intervista di Jovan Divjak edito di recente in italiano (Infinito edizioni, Roma).