“Se non possedete l’ironia abbiate almeno un pizzico di umorismo”. Quando Tommaso Moro sognava Utopia era del parere che solo il riso avesse il potere di salvare il cittadino dall’umor nero della politica. Ridere significa emanciparsi.
Sarebbe interessante rifare la storia del Novecento attraverso i sorrisi dei suoi uomini-simbolo. Come non ricordare il sorriso sdentato del Mahatma Gandhi, la lingua beffarda di Einstein, il fascino di Ernesto Guevara, di Pablo Neruda, il sorriso diplomatico di John Kennedy, quello infantilmente smaliziato di Marylin Monroe, quello pieno di vita di Mandela dopo trent’anni di prigione fino alle risate giocose di Giovanni Paolo II.
Il centrosinistra italiano ha perso il sorriso. Vive nell’ombra.
Il primo punto dolente della crisi politica attuale – così come è emerso anche dall’ultima tornata elettorale – sta proprio qui, nell’espressione drammatica, notturna, gravemente seriosa, spettrale. Fisicamente il centrosinistra rappresenta una luna storta, un sentiero nel buio, il tramonto del sole, la traversata nebbiosa verso una terra oscura.
Barack Obama entusiasma perché annuncia un mondo nuovo. Lo fa con i gesti, con le espressioni, con i sorrisi. Attrae, dà energia. Ribalta la visione oscurantista di Bush, rivoluziona il linguaggio, apre le porte e le finestre del dialogo, offre un volto positivo dell’America diametralmente opposto rispetto a quello offerto fino a ieri dai repubblicani. Non insegue la destra, ne prende fortemente le distanze. Alza lo sguardo, annuncia orizzonti, dà una visione di prospettiva alla politica. Allo scontro fra le civiltà propone l’incontro, alla paura sostituisce la fiducia, afferma con Jonas il principio della responsabilità e della mutua fecondazione e liquida l’imperialismo politico ed economico come un retaggio di una visione distorta della comunità mondiale: “Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo – un lungo e impegnativo sforzo – per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani”.
Il centrosinistra ha perso la prospettiva, la visione di un futuro possibile.
A differenza di Obama in Italia l’opposizione fatica enormemente a trovare un quadro ideale su cui disegnare uno scenario di società davvero alternativo. La paura di perdere consensi o di rafforzare la leadership di Berlusconi fa passare sottotraccia una proposta concreta e l’elettorato riamane spiazzato. Sui problemi “assoluti” della politica (immigrazione, povertà, ambiente, economia, diritti…) le analisi sono spesso deboli, viziate da una sorta di disagio nei confronti di un elettorato pompato dalla paura degli altri, ossessionato dalla sicurezza, percorso da fremiti di violenza e di giustizia fai da te, totalmente sciolto dai vincoli di solidarietà e trincerato nella difesa dei diritti di proprietà individuale. È come se ci si muovesse su cocci di bottiglia aguzzi. Sentiamo ripetere spesso: non si può osare troppo perché è controproducente, attenzione a non dare l’idea di essere buonisti perché i cittadini sono davvero esacerbati, l’anima della Lega è cinica e ributtante ma stiamo attenti a non essere troppo indulgenti perché i problemi ci sono davvero, perfino sui respingimenti, severamente attaccati perfino dalle Nazioni Unite, nel centrosinistra si sono viste, qua e là, delle strizzatine d’occhio all’azione del governo.
Manca un progetto forte, condiviso, una visione aperta della politica che rimetta in moto i muscoli atrofizzati della società civile e risvegli impulsi di impegno e volontà di protagonismo sociale e ideale. Si avverte paura, si sente in lontananza un balbettio preoccupato e preoccupante. Si procede con passo cadenzato, guardingo, immobile.
Il centrosinistra ha perso vitalità.
Insomma, si percepisce una grande stanchezza. Ancor prima delle elezioni l’obiettivo fissato era di reggere, di frenare la caduta, di evitare il collasso. Non di avanzare, di spostare la linea più avanti, di raggiungere e magari battere il centrodestra. Irritati, sconquassati, i leader del centrosinistra passavano da una riunione all’altra senza sorrisi, dominati dall’ossessione dei sondaggi, dalla paura di una critica che potesse rimettere in discussioni alcuni principi codificati, mummificati, diventati sistema. E quando una forza politica si accontenta di esserci e non di divenire, quando pensa che la ragione della sua esistenza sia unicamente quella di amministrare e di salvare il salvabile anziché lanciarsi nell’avventura di una nuova vita (con tutti i rischi connessi) allora la curva del decadimento è superata. E questo è tanto più deleterio se lo riferiamo a forze che si definiscono progressiste, perché il sale del rinnovamento è il continuo cambiamento e non l’immobilismo assetato, il “meriggiare pallido e assorto” per dirla con un famoso verso di Montale.
Il centrosinistra ha perso fiducia nel dialogo, nell’ascolto, nella partecipazione
Ma il punto più deleterio è la rinuncia al dialogo. La conflittualità interna ai partiti è l’elemento più incomprensibile e fastidioso della crisi politica del centrosinistra. In questi ultimi anni si è dato mano a un’impressionante disarticolazione della politica: personalismi, lotte intestine, culture politiche che puntano i piedi, affermazioni di poteri interni, ricostruzione degli apparati.
Il bisogno di uscire dai partiti per elaborare una politica partecipata, capace di raccogliere sul territorio intelligenze, capacità, sensibilità plurali è stata coperta dal ritorno dell’idea di partito come habitat chiuso, come territorio in cui introiettare il bisogno di esercitare il potere degli uni contro gli altri. Invece di semplificare sempre più il quadro del centrosinistra lo si è reso ancora più caotico, anziché convergere in un obiettivo comune, quello di ribaltare l’asse del potere in Italia, si è preferito frammentare la lotta così da renderla improduttiva. Il pluralismo si attua con il dialogo e non con le scomuniche e anche a sinistra, davanti alle sfide rappresentate dalla deriva europea verso movimenti e pulsioni xenofobi, etnocentrichi, verso una frantumazione della condizione di lavoro, di salario, verso un mercato che sempre di più mostra il suo volto selettivo e spregiudicato, come si può pensare di rompere su questioni incomprensibili, impercettibili, su diatribe ideologiche e simboliche che non hanno alcuna attinenza con il senso di una visione politica di un’Europa casa accogliente e non fortezza invalicabile?
Sentinella, quanto ci resta ancora della notte?
Per capire come uscire dalla crisi, forse è bene recuperare le parole di un “profeta” della politica. Nel 1994 il monaco Giuseppe Dossetti uscì dal convento per fare la sua ultima battaglia in difesa della Costituzione repubblicana. Ricordando Lazzati, scrisse uno straordinario articolo sul tema della notte della democrazia. Dossetti aveva previsto tutto: il decadimento civile, la trasformazione della comunità umana in un agglomerato di solipsismi, in una società dominata dall’individualismo esasperato. Tutto si fa mercato, la modernità liquida indebolisce ogni prospettiva di futuro, la frenesia di potere congiunto al denaro spinge sempre più persone a rinnegare i valori profondi dell’uomo interiore per privilegiare gli onori esteriori.
Dossetti parlava in primo luogo ai battezzati e partiva da un monito di Isaia: “Mi gridano da Seir: Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, e poi anche la notte se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!”.
Possiamo prendere spunto da qui per rilanciare, in un contesto più laico, la provocazione dossettiana. L’uscita dalla notte del centrosinistra può avvenire soltanto con una profonda conversione interna, con un rinnovamento radicale, non tanto e non solo con il coinvolgimento di giovani attratti da una politica di impegno e di servizio per la collettività, ma soprattutto con la maturazione di idee, di visioni, di narrazioni condivise che sappiano indicarci l’alba di un nuovo giorno.
Francesco Comina (1967), giornalista e scrittore.
Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e
ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a
"L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e
riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato
assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino
Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La
testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il
jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo
Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui
la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis
Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis
Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle
strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine).
Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano.