L’orgoglio norvegese è stato appena intaccato dal doppio attentato che Anders Behring Breivik ha attuato il 22 luglio scorso con l’autobomba esplosa nel centro di Oslo e la carneficina di Utoya. I 4 milioni e settecentomila norvegesi, dopo un breve periodo di sconcerto e di incredulità, hanno reagito con ciò che hanno di meglio nella loro cultura: la razionalità nordica. Quella razionalità che noi mediterranei tanto rifiutiamo preferendola all’emotività, sta salvando la Norvegia da isterismi collettivi e da comodi j’accuse. “Non è facile distinguere chi è pazzo e chi no” scrisse lo scrittore norvegese e premio Nobel per la letteratura, Knut Hamsun. Così, mentre da noi l’azione di Breivik viene liquidata come un gesto compiuto da un folle, qui in Norvegia la classe politica, gli intellettuali e i sociologi si stanno interrogando sui reali motivi che hanno portato ad un figlio di questa stessa patria che afferma di amare, a compiere un gesto così estremo. Jens Stoltenberg, leader del Partito Laburista e primo ministro norvegese, ad una mia domanda sulla mitezza della pena a cui potrebbe incorrere Breivik (il massimo consentito dalla legislazione è di 25 anni di carcere) mi risponde che «non dobbiamo cercare punizioni, bensì eliminare le cause che hanno portato a questo comportamento così antisociale». Tore Bjorgo, esperto di terrorismo internazionale al Norwegian Istitute of International Affairs, appoggia le parole del leader del governo: «La Norvegia non deve farsi prendere dal panico. Al contrario, deve avere la forza di rimanere un paese tollerante ed aperto, come lo è sempre stato». Ed è questa l’atmosfera che della frase del drammaturgo. Ad Alta, cittadina del Finnmark, la regione più settentrionale della Norvegia, Nina Kokkin e Gerd Fahlstrom, due universitari della facoltà di Sociologia, affermano che il gesto di Breivik, pur nella sua assurdità, trova una giustificazione nella difficile situazione economica nazionale. «Nel Finnmark, la contea più lontana da Oslo, la società si è politicamente spaccata: in sedici anni il Partito del Progresso (il partito di estrema destra, ndr) è passato dal 2 al 22%, indicando che i norvegesi si stanno stancando della politica dei laburisti». Secondo Nina e Gerd la lacerazione di sta estendendo su tutto il paese: mentre, infatti, nelle ultime elezioni generali del 2009, i laburisti hanno ottenuto il 35% dei consensi (nel 1993 erano il 37%), il Partito del Progresso ne ha raccolti 23%, contro il 6% del 1993. E Breivik ha trascorso gli anni di formazione politica proprio nel Partito del Progresso. L’avanzata dei conservatori radicali preoccupa Daniel Poohl, caporedattore di Expo, l’organizzazione che studia l’estremismo di destra in Scandinavia, fondata dallo scrittore trotskista Stieg Larsson, noto in Italia per la sua trilogia di romanzi polizieschi Millennium. Secondo Poohl la Norvegia era l’unico paese scandinavo a non aver mai avuto frange neonaziste organizzate, come invece esistono in Svezia, Danimarca e Finlandia. “In tutti e quattro i Paesi scandinavi esistono partiti e movimenti più o meno legali che si rifanno esplicitamente all’ideologia nazista. La Norvegia si pensava fosse il paese meno coinvolto in questo processo: i membri del Vigrid, del Blood and Honour e del Movimento Nazional Socialista Norvegese sono sempre state frange disorganizzate e incoerenti. Gli attentati del 22 luglio, però, dimostrano che qualcosa sta cambiando anche in questa nazione”. Chi si scaglia con maggiore veemenza contro Breivik sono proprio loro, i conservatori: «Nel partito siamo tutti imbarazzati e disgustati che Breivik abbia fatto parte del movimento fino al 2006. Non sappiamo perché ne sia entrato, ma è chiaro perché ne sia uscito» spiega Siv Jensen, leader del Partito del Progresso. L’atto di Breivik è forse isolato, ma le idee di cui si è alimentato sono ancora radicate nell’Europa. Chiudere le porte creando dei compartimenti stagni soffocherebbe ogni cultura. Affinché le civiltà possano sopravvivere, occorre cercare le chiavi per aprire gli usci. Solo in questo modo le idee potranno ritrovare nuovi stimoli e rinvigorirsi.
[articolo pubblicato sul quotidiano L’Eco di Bergamo di sabato 20 agosto 2011]
Piergiorgio Pescali è un giornalista. Ha seguito da vicino il movimento dei Khmer Rossi cambogiano, intervistando tutti i leaders incluso Pol Pot. Tra i primi giornalisti ad entrare in Corea del Nord, mentre in Myanmar segue le vicende del movimento d'opposizione intervistando più volte Aung San Suu Kyi. E’ inviato più volte anche in Afghanistan tra i Taleban ed è l’ultimo giornalista occidentale ad intervistare Ahmad Massud. In Italia collabora con diverse testate tra cui Il Manifesto, Famiglia Cristiana, Avvenire, Rollingstone Magazine, Missioni Consolata, Mondo e Missione, Popoli, Radio Base di Mestre, Radio Vaticana. Per Radio E di Bergamo conduce "Una tantum", trasmissione di attualità viaggi, cultura. Collabora anche con periodici in Estremo Oriente, Europa, America Latina e del Nord.