La Gerusalemme che scolorisce alle spalle nel settembre 2009, è intimorita e non intrigante come la Gerusalemme dalla quale scendeva Saulo di Tarso, 1971 anni prima. Anche allora l’inquietudine si divideva tra politica e religione. È vero che Saulo (il nostro San Paolo) non doveva attraversare check point dove la diffidenza assume le forme di un agguato burocratico: bagaglio rivoltato, macchina fotografica nelle mani di chi prova a scattare una, due, tre immagini per esorcizzare l’ipotesi della bocca da sparo dietro l’obiettivo. I metal detectors vorrebbero frugare nei pensieri.
Il viaggio di Paulo era apparentemente più tranquillo del viaggio di due curiosi qualsiasi: un fotografo e un giornalista. Il sospetto li accompagna come accompagnava ogni viandante straniero anche se Paolo camminava col passo del viandante bene accreditato. Ma non rilassato. Cristo era stato crocefisso da poco e i suoi fedeli lasciavano Gerusalemme per sfuggire la persecuzione del Sinedrio del quale Paolo si considerava il braccio armato. «Devastava il tempio degli amici di Gesù, trascinando uomini e donne». Riempiva le prigioni: «e quando venivano condannati a morte anche Saulo votavo contro di loro». Racconta di averli torturati nell’ombra delle sinagoghe «per farli bestemmiare e ripudiare il messia. Ecco perché scappavano ed io li inseguivo nelle città lontane». Paolo non andava a Damasco per commerci, ma usava i compagni in viaggio d’affari per la comodità del non attraversare da solo strade insicure. E per non dare l’occhio, come ogni agente segreto. Nella borsa qualche lettera: accrediti del sommo sacerdote a chi reggeva le sinagoghe di Damasco. Gli attribuivano «pieni poteri». Insomma, licenza di uccidere o di arrestare e trascinare i fanatici cristiani in catene a Gerusalemme. Operazione «coperta»; politici e sacerdoti l’avrebbero ufficialmente rinnegata giurando di non saperne nulla. E Paolo camminava in un niente pieno di spine ma al riparo dal sospetto delle vittime. Viandante qualsiasi infervorato dal pensiero di rimettere ordine nel disordine della fede.
Da Gerusalemme a Damasco i chilometri erano (e sono) più o meno 200 o 250, dipende dal cammino scelto dalla carovana. Otto giorni di viaggio fra pietraie abbaglianti. Pur essendo impegnato in un’operazione militare, nessuno racconta il viaggio di Paolo a dorso di cavallo. Né Luca, l’evangelista, né lo stesso Saulo. Asini e cavalli venivano riservati a militari di un certo grado o mercanti agiati che non rinunciavano alla comodità e all’esibizione. Ma Paolo si stava nascondendo coi sandali nella polvere. E quando ha avuto la folgorazione non poteva cadere dal cavallo che non inforcava: «Cadeva perché le gambe si erano piegate. Luce e voce di Cristo lo avevano tramortito». Era quasi mezzogiorno. L’oasi di Damasco si avvicinava, il sole batteva senza pietà e restava lontana la speranza di raggiungere il fiume che attraversa la città prima di immergersi e sparire nel deserto. Sgorga nell’Antilibano, montagna che divide la Siria dalla valle libanese della Bekaa dove i notabili sunniti e cristiano-maroniti coltivano «il miglior hashish del Medio Oriente». Era la strada nella quale sospiravano di sollievo – avendo ormai varcato il confine – i profughi in fuga dalle guerre di Beirut, anni Ottanta. Il fiume accompagna l’asfalto con la grazia delle case liberty dimenticate dai governatori ottomani o dai militari francesi che ne avevano preso il posto alla corte di re Feisal quando l’impero di Istanbul si sbriciolava nella prima guerra mondiale. Lawrence d’Arabia, che poi è solo il colonnello Lawrence dei «Sette pilastri della saggezza», galoppava nelle strade di San Paolo con armi e dinamite: l’assalto ai treni sgonfiava il potere di un impero il cui governo – Sacra Porta – era ormai traballante. Lawrence apriva il capitolo della dominazione francese che lui, inglese arabofilo, ripudiava, ma che i cancellieri riuniti a Versailles trovavano «ragionevole» tracciando confini quasi a caso. Rettangoli e triangoli, segni aguzzi nel deserto per dividere culture e popoli: i kurdi in quattro, i beduini in tre, mentre la Mesopotania dalle lingue inconciliabili si riuniva nel futuro regno di Saddam Hussein. Stiamo ancora sopportandone la follia. Ma erano rettangoli e triangoli non tracciati quando Paolo li tagliava con passo stanco.
La conversione comincia con gli occhi «che perdono la vecchia luce». Per tre giorni resta cieco «sconvolto dalla rivelazione». Ipotesi meno spirituali attribuiscono il deliquio al tormento che inquietava i pensieri di un uomo intelligente costretto ad un silenzio guardingo nel lungo cammino. Stava per compiere un’impresa rivoltante: spiare, catturare, punire. Ed il passato lo inseguiva coi fantasmi di gendarme dalle mani spietate.
Lo sfinimento esaspera la crisi forse psicopatica, groviglio misterioso della malattia della quale Paolo fa cenno nelle lettere. Disarma ogni orgoglio. Si apre alla conversione. Può essere una voce divina che sale dal cuore, la voce che lo precipita a terra. Quando riprende il cammino scopre di essere cieco. Deve «aggrapparsi alle mani dei compagni» per andare avanti. Nessun cavallo. Solo nelle trascrizioni iconografiche del primo medioevo monta in sella e dall’alto precipita, momento simbolico di una punizione per il passato di sciagure.
Cade, ma su quale strada? La cerchiamo, viaggio ondivagante, seguendo cammini diversi. Forse la prima strada scendeva da Gerusalemme a Jerico, depressione del mar Morto. Accanto ai resti della reggia di Erode, Giuseppe Dossetti (avversario nella Dc di De Gasperi, anni ’40 e poi sacerdote e ricercatore dei segreti nascosti nelle scritture aramaiche) aveva aperto una delle sue comunità: traduceva Bibbia e Vangelo e altre lingue morte che il tempo ha divorato. Indagava le radici del passato per capire il presente. Jerico è oggi il centro politico (quasi immaginario) dei palestinesi che inseguono lo stato sovrano. La carovana di Paolo guada il Giordano. Duemila anni dopo manca ancora un vero ponte; c’è la robusta passerella militare dedicata al generale Allenby, alto commissario inglese in Egitto. Londra lo aveva incaricato di vegliare sull’emiro Abdullah, principe beduino per il quale era stata inventata la Giordania. Allenby ha visto crescere un ragazzo diventato re appena hanno sparato ad Abdullah nella moschea di Gerusalemme ed il ragazzo si è salvato perché la pallottola si è fermata sulla medaglia che portava al petto. Eredita la corona del nonno e a 17 anni comincia il lungo regno di re Hussein. Anche col figlio di Hussein, Abdallah, cresciuto in Inghilterra e adesso sul trono, la reggia mantiene l’aria del palazzotto di una città termale. L’ambasciata di Londra è sempre dall’altra parte del giardino. Solo una siepe di fiori divide l’ospite inglese dal sovrano.
Paolo non ha attraversato l’unico ponte sopravissuto alla guerra vinta da Dayan nel 1967, ma è questo il luogo dove il fiume si restringe permettendo il guado alla carovana diretta sull’altra riva del Giordano dove la marcia arriva alla città di Karama. Allora era un villaggio. La fuga palestinese da Gerusalemme e Jaffa (nuovo nome, Tel Aviv) ne ha gonfiato le case, allungato le strade. Fra i tornanti tagliati nella roccia dove la carovana di Paolo si accampa durante la notte per sfuggire i briganti che minacciano la pianura, il 21 aprile 1968, succede qualcosa. Per caso ero lì col fotografo. E le immagini di Aldo Guidi raccontano la corsa dei tanks israeliani. Inseguivano guerriglieri palestinesi che cercavano di animare la resistenza nei territori occupati da Moshe Dayan, quel giugno ’67. Vengono sorpresi; braccati. I carri attraversano il confine non badando alla frontiera sguarnita del piccolo re. Si addentrano verso Karama sulle orme dei fuggitivi. È una trappola; chi scappa fa da esca. Due carri e molti ragazzi non tornano a Gerusalemme. E comincia uno scontro diverso, non più tra l’esercito disfatto di Hussein e la macchina da guerra israeliana. Si aprono anni di una guerriglia la cui disperazione non smette mai. Nel cortile di una scuola di Karama, incontriamo un signore dal profilo soffice, calvizie da impiegato che suda: camiciola gialla inzuppata. Annuncia ai giornalisti con voce da guru: «Da questo momento Israele deve sapere che vogliamo tornare nei campi di grano dai quali siamo stati scacciati». «Qual’è il nome?« chiedo a un fedayn che veglia armato alle sue spalle. «Abu Amar, padre di Amar, discepolo prediletto del Profeta. Nella vita fa l’ingegnere: ingegner Arafat». Era il primo passo di Arafat sulla strada di San Paolo.
La seconda strada della carovana di Paolo propone le stesse inquietudini. Affrontava i tornanti spigolosi che salgono ad Amman: si chiamava Philadelphia per dare pompa a Tolomeo il Philadelphio quando i greci ne diventano padroni. Paolo sfiorava il teatro di Jerash, città romana costruita da centurioni che invecchiavano; in marcia verso l’altipiano che porta a Damasco. Oggi la circondano i campi profughi palestinesi. Quasi mezzo secolo dopo sono in tanti a non aver trovato forza e fantasia per cercare una ipotesi diversa dai reticolati. Vivono della carità dell’Unrwa, agenzia dell’Onu. Ghetti, disperazione, rabbia. In uno di questi campi, attorno ad Ajloun, fra vigne di uva rosata ed ulivi, si aprivano le baracche dei seguaci di Georges Habbash, medico ortodosso, profeta del terrorismo nei cieli. Palestina dura. Quando finivano gli anni ’60 dirottava jumbo passeggeri nel deserto e li faceva saltare dopo aver liberato gli ostaggi. Sembrava spietato. Negli orrori dei nostri giorni il ricordo lo rimpicciolisce in apprendista stregone.
La terza strada di San Paolo cammina fra i pescatori del lago di Tiberiade, attraversa Cafarno per salire sulle alture del Golan: lontano, ecco il cielo di Damasco. La città di oggi è Quneitra, spettri di case attorno al filo di un confine artificiale. Da una parte Israele, dall’altra la Siria. Quneitra è la medaglia che brillava sul petto del generale Elazar, ebreo jugoslavo agli ordini di Dayan. Un militare che nel tempo libero si allenava psicologicamente alla guerra smontando modelli di carro armato, pezzo per pezzo, e ricomponendoli con rapidità, sempre ad occhi bendati. Ha strappato Quneitra ai siriani nel giugno ’67 sparando pochi colpi, talmente pochi da mostrare ai giornalisti la meraviglia: case, scuole, l’ospedale, perfino il municipio senza graffi profondi. Quando Paolo l’ha attraversata, Quneitra era un villaggio, pastori e orti di montagna. Non siamo riusciti a risalire la vetta dalla parte siriana. Ai giornalisti è proibito. Ci mescoliamo a una compagnia di vacanzieri. Li abbandoniamo, quasi clandestini come era clandestino San Paolo sulla stessa strada. Mezzogiorno. Ha fame l’amico siriano che ci guida fuori dalle piste autorizzate. Oltre le case di Khan Arnhaha impossibile andare. Mancano cinque chilometri ai fantasmi di Quneitra ma serve un permesso a noi negato. Ci rassegniamo a non guardare e non capire dall’alto, tra Tiberiade e la piana di Damasco, quale delle strade fosse più conveniente alla carovana di Paolo. Mangiamo sotto una tettoia: humus, passato di verdure intrise d’aglio. Beviamo arak profumato. Con occhi sconsolati speriamo nella bandiera ONU, caschi blu tutori della pace, ma impotenti nel convincere i militari siriani a concedere un pass per dare almeno un’occhiata. Caldo che soffoca. Un contadino e due asini scendono dal Golan e si immergono nella piana bollente. Forse qui, Paolo, a quest’ora, duemila anni fa, ha cambiato strada e vocazione.