Ci sono casi in cui il lavoro di un giornalista può essere minacciato anche dall’interno. Agostino Pantano scrive da quindici anni, durante i quali ha lavorato per la Gazzetta del Sud, il Domani della Calabria e Calabria Ora. Ha inoltre collaborato con l’Unità e diverse altre testate. Per Calabria Ora è stato responsabile della redazione di Gioia Tauro fino al momento delle dimissioni, motivate dalla volontà degli editori di imporre al giornale una nuova linea, meno aggressiva.
In più occasioni hai ricevuto minacce da parte delle cosche, quando e in che modo ciò è avvenuto?
Qui in Calabria non necessariamente gli attentati o le intimidazioni commesse a danno dei giornalisti hanno una mano mafiosa. Anche se non sono direttamente organizzate dalla mafia rispondono comunque a una logica di quel tipo, la logica del punire chi in qualche modo racconta di interessi scottanti. Le mie intimidazioni sono avvenute in momenti particolari del mio lavoro. La prima, nel novembre 2007, periodo in cui stavo scrivendo molto di una maxi-confisca di beni ai danni della cosca Bellocco di San Ferdinando cittadina dove vivo. In quell’occasione qualcuno mise su parabrezza dell’auto della mia famiglia una busta trasparente con dentro un pece dalla testa mozzata. All’epoca ho sottovalutato il fatto perché era il primo caso, era volto a fare terrorismo ai danni della mia famiglia.
Una sorta di minaccia “morbida”?
Questa gente cerca prima di tutto di farti terra bruciata intorno, tentano di colpire la sfera famigliare in modo che i tuoi stessi parenti tentino in qualche modo di dissuaderti dal continuare a scrivere. Tu come giornalista sei abituato a gestire la tua paura, perché fa parte del tuo lavoro e la metti in preventivo, però chi ti sta vicino non è abituato e quindi tende sempre a preoccuparsi, consigliandoti di non continuare, eccetera. Questo non è il caso della mia famiglia che, anzi, mi ha in qualche modo sostenuto.
Quali altre minacce seguirono?
La seconda intimidazione l’ho ricevuta nella primavera 2008, a Gioia Tauro. Qualcuno aveva forato più volte una delle gomme della mia auto. In quel periodo era in corso il dibattimento per l’omicidio del dottor Luigi Ioculano, un omicidio di mafia per il quale all’epoca venne condannato in primo grado il boss Giuseppe Piromalli, che poi fu assolto in appello. Io scrivevo con insistenza dei legami tra la politica di Gioia Tauro e il clan Piromalli. Il 2008 è un anno un po’ complesso per la storia di Gioia Tauro. Il 1 febbraio venne ucciso a due passi dalla nostra redazione il boss Rocco Molè, in quella che si pensa fosse l’inizio di una faida tra le due famiglie storiche di Goia Tauro. Nell’aprile successivo un’autobomba uccise Antonino Princi, un noto imprenditore della zona, genero del boss Micu Rugolo di Castellane di Oppido. C’era un clima di guerra in città. Nell’ottobre successivo venne arrestato l’allora sindaco di Gioia Tauro, Giorgio dal Torrione, messo sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa e prosciolto proprio in questi giorni. Il consiglio comunale venne sciolto per infiltrazioni mafiose.
E in questi momenti una stampa indipendente può dare veramente fastidio.
Ciò che dà fastidio alla ‘ndrangheta in tutto il territorio calabrese è che mentre una volta, almeno fino agli anni ’80, la stampa si limitava a riportare la notizia dell’arresto o, peggio ancora, la notizia dell’omicidio indugiando su particolari morbosi, ora la situazione è diversa. Oggi le organizzazioni criminali hanno capito che i giornalisti sono in grado di approfondire le tematiche che riguardano la potenza economica della mafia, sono in grado di andare oltre una visione stupidamente romantica della criminalità organizzata, additando queste famiglie come le vere responsabili del mancato sviluppo di questa nostra regione. Ecco, probabilmente la mafia che spara, la mafia che intimidisce i giornalisti, che si fa promotrice di minaccia lo fa perché teme la cattiva pubblicità che i giornali possono fare.
Ma insistere sui legami tra mafia e politica ti è costato il posto, nel luglio di quest’anno. E con te anche al direttore e agli altri colleghi che vi hanno seguito, vuoi parlarcene?
Al di là della decisione mia, del direttore e di altri sette colleghi di lasciare quel giornale, a Calabria Ora è successa una cosa molto grave e molto importante per quanto riguarda la libertà di informazione in Italia. Il giornale stava portando avanti una campagna ben precisa. Quella direzione sosteneva che, anche se non ci sono gli estremi dell’indagine penale, è certamente da segnalare all’opinione pubblica un comportamento incongruo dei politici che hanno frequentazioni con imprenditori in odore di mafia o con mafiosi, così come faceva all’ora il neo-governatore della regione Calabria Giuseppe Scopelliti. Questa era la grossa colpa che gli editori di Calabria Ora addebitarono al direttore Pollichieni il 19 luglio scorso, quando lo convocarono e chiesero espressamente un cambio di linea editoriale. Una richiesta che Pollichieni non poteva assolutamente accettare. Da qui le immediate dimissioni sue e di tutta la struttura portante del giornale.
Quali le conseguenze sul piano informativo?
Siccome oggi non leggo su quel giornale né su altri quotidiani calabresi l’evolversi dell’inchiesta denominata “Meta”, né leggo più di quelle frequentazioni del governatore, ritengo che complessivamente il diritto di informare in regione sia più povero dopo quella stagione importante di giornalismo calabrese, una stagione che aveva portato a creare in quattro anni e mezzo un giornale che si era affermato attraverso una linea di denuncia precisa sia della mafia che dei suoi rapporti con la politica. Ci volevano far fare un giornale diverso e noi non ci siamo stati.
Si può quindi supporre che queste spinte per un cambio di linea editoriale venissero direttamente dalla ‘ndrangheta? O era solo una scelta di comodo per non incorrere in problemi troppo grossi?
Il direttore Pollichieni, nel suo ultimo editoriale uscito in edicola il giorno seguente le sue dimissioni, scrive che il potere politico, il potere che “intrallazza” anche con la mafia aveva vinto rispetto alla sua volontà. Ammetteva la sua sconfitta e offriva ai calabresi la possibilità di farsi un’idea. Io penso che quell’uscita di scena, quella trasformazione di un giornale che aveva avuto fin lì una linea di denuncia molto ben pronunciata, abbia certamente incontrato gli interessi di diversi ambienti criminali calabresi. Erano tanti a poter godere della trasformazione di un giornale che oggi è diverso.
A ogni favore il suo contraltare. Abbattere un giornale che lavora e vende bene comporta una perdita economica. In base a una logica imprenditoriale, cosa ci hanno guadagnato gli editori?
Gli editori Fausto Aquino e Piero Citrigno hanno interessi noti da anni nel settore della sanità. È di questi giorni la notizia dell’acquisto da parte loro di una nuova clinica nella città di Cosenza. Questo è lo scenario.
Hai fatto riferimento all’editoriale del 20 luglio. Editoriale che sembra pochi l’abbiano potuto leggere poiché pare che le rotative abbiano avuto dei problemi quel giorno. Pensi sia un caso?
Io sono un giornalista, e per definizione i giornalisti sono portati a pensar male. Al di là che sia stato un caso o no, sta di fatto che il giornale è uscito quel giorno solo nelle province di Reggio e di Catanzaro, con molto ritardo. Ad esempio a Reggio il quotidiano è arrivato in edicola non prima delle 11, quindi ritengo ci fosse la chiara volontà di far leggere al minor numero di persone possibili quell’editoriale. Tieni conto poi che di fianco all’editoriale del direttore che n’era un altro firmato dagli editori che tentavano invano di smentire le argomentazioni del direttore arrivando a offendere tutto il corpo giornalistico della testata dicendo che i meriti raggiunti da Calabria Ora non erano elusivamente dei giornalisti
Durante tutte le vicende che ti sono capitate negli ultimi anni hai sempre potuto contare sul tuo ambiente professionale o ti sei scoperto isolato?
Fortunatamente la categoria ha capito che la posta in gioco è alta perché non c’è soltanto la libertà d’informare, il diritto di cronaca, ma c’è anche l’incolumità dei giornalisti stessi. Se si tende a colpirne uno per educarne cento non vorrei arrivassimo a fare la fine di altri giornalisti che hanno pagato con la vita il prezzo del loro lavoro. Mi riferisco a Giancarlo Siani, Mauro de Mauro e tutti gli altri. Quindi c’è una sensibilizzazione maggiore. Io sono per superare queste polemiche sterili che spesso entrano anche nel dibattito provinciale che c’è in Calabria per distinguere tra intimidazioni e intimidazioni. Dobbiamo metterci in testa che qualunque giornalista viene minacciato è come se quella minaccia fosse diretta a tutti. Quindi non solo massima solidarietà a chi viene colpito, ma anche fare in modo che non si personalizzi il lavoro del giornalista, fare in modo che intorno a lui ci sia una squadra che lavori con la stessa filosofia. Io spero non si faccia oggi l’errore di isolare chi sta sulla barricata.
Dall’ultimo rapporto Ossigeno abbiamo avuto conferma che sono moltissimi in Italia i casi di cronisti minacciati. Molti però sono coloro che non denunciano minimamente la loro condizione. Credi sia una forma di autodifesa o un deficit professionale?
Penso sia un errore di valutazione. Io stesso inizialmente ho sottovalutato i primi segnali. Non bisogna sottovalutare, non bisogna avere paura, non bisogna pensare che sia inutile. La forza di questa gente qual è? Che se il giornalista non denuncia il mafioso pensa che non lo fa per paura, quindi approfitta della tua debolezza. Il giornalista deve riuscire ad arginare immediatamente i comportamenti che possono arrivare alle intimidazioni eclatanti, che partono sempre da micro segnali.
Ritieni che per un giornalista la mafia sia un argomento più difficile da trattare rispetto ad altri?
Io non sono per la retorica del giornalismo antimafia. Per me il giornalismo è un mestiere che va fatto senza aggettivi, però mi rendo conto che in un territorio come il nostro è difficile, impregnato com’è di cultura mafiosa, oltre che nelle mani della criminalità organizzata.
Distinguo tra il potere economico della criminalità organizzata e la cultura mafiosa che pervade ampi strati della popolazione. Qui ci sono meno di cento passi tra la casa di un giornalista e quella di un mafioso. Magari passi al bar e incontri per caso il picciotto che tenta di offrirti il caffè, di darti la pacca sulle spalle come a dire “io so chi sei, so dove abiti, quindi stai attento che ti controllo”. È questa la difficoltà di lavorare in un territorio come questo, ma se uno sceglie di stare dalla parte del dovere di informare deve assolutamente creare le condizioni per non avere paura, o quantomeno per avere paura ma saperla gestire, perché anche la paura fa parte di questo nostro lavoro.
Eliano Ricci, classe '85, è laureato in Scienze della Comunicazione presso l'Università di Bologna, lavoratore mediamente precario e musicista. Si interessa di politica, cultura alternativa e pubblicità.