E mentre il Mediterraneo brucia, dall'America Latina arriva la speranza del riconoscimento dello stato palestinese. Dal Brasile all'Argentina, dall'Uruguay al Venezuela tutti d'accordo nel tracciare i confini della dignità per riconoscere un popolo disconosciuto da mezzo secolo. Ma sarà vero?
Siamo noi responsabili della rabbia nelle piazze d’Egitto
03-02-2011
di
Ippolito Mauri
Era una tragedia annunciata, ma Stati Uniti ed Europa hanno fatto finta di niente fino a quando la rabbia della generazione internet ruba la piazza all’Islam e travolge le autocrazie. Due ore prima che Obama prendesse le distanze da Mubarak, il nostro ministro frattini spandeva incenso sull’uomo “indispensabile alla stabilità del Medio Oriente”. Lo abbiamo nutrito, consolato, sostenuto così. Un miliardo e mezzo all’anno al suo esercito e alle sue polizie. Il modello Tunisia inventato da Craxi e Andreotti sembrava indistruttibile. Un uomo forte al comando, affari e tv che rallegrano gli interessi di pochi: il resto non conta.
Il resto è la miseria di un’emigrazione drammatica. Il resto sono i bambini e le donne chiusi nel ghetto della miseria sulla quale veglia l’indifferenza dei paesi che considerano Egitto e Tunisia bei posti per vacanze. Novità dell’ Egitto, le donne in piazza. Baciano e sfidano i soldati. Vogliono ricucire la speranza dopo 30 anni di una disattenzione affidata alle polizie. Da Tunisi al Libano degli hezzbollah ormai al governo; dalla Giordania che traballa (quel re che si gioca a Las Vegas l’aereo di stato) allo Yemen dei banditi del profeta, il mondo arabo cambia faccia mentre nel Sudan si preparano gli ultimi assalti di una guerra civile con un milione di morti alle spalle. Israele assediata dal caos preoccupa le nostre soffici città eppure il silenzio dei non innocenti continua a nascondere il cuore del disordine che da mezzo secolo sconvolge i popoli in fondo al Mediterraneo.
Palestinesi sbeffeggiati negli appuntamenti di pace, rimandati, respinti, affogati da strategie disinteressate al dramma di donne mai considerate. Vanno in prima pagina quando (come Leila Kaled, 1970) dirottano gli aerei di chi va a caccia di pesci nel mar Rosso, oppure esasperano la vergogna e la paura se scoppiano, bombe umane delle kamikaze. Invasioni armate, “punizioni” al fosforo bianco, eppure le furbizie non cambiano e i profughi continuano ad aspettare. Quale futuro nella regione in fiamme ? Ecco che l’altra America nella stagione del benessere prova a diventare protagonista. Comincia dal Medio Oriente. Il 16 febbraio Lima ospita l’incontro tra 9 presidenti latini e 11 capi di stato arabi. Gli arabi del Sudamerica sono milioni in fuga dall’impero turco disfatto alla fine della prima guerra mondiale. Lobby che pesa in politica e negli affari.
La comunità cilena (300 mila commercianti, piccoli e grandi imprenditori) dà fiato all’economia. L’immensa moschea di Caracas nasce cinquant’anni fa appena il boom del petrolio scuote le gerarchie sociali. Impossibile fare il conto di quanti siro-libanesi siano dispersi nel Brasile continente, ma subito Dilma Rousseff segue le promesse di Lula: annuncia il riconoscimento dello stato palestinese assieme ad Argentina, Cile, Bolivia, Ecuador, Uruguay e Paraguay. Venezuela e Cuba d’accordo. Le divisioni restano a proposito dei confini dentro i quali dovrebbe nascere la Palestina. Dilma conferma le frontiere tracciate dall’Onu nel ‘48: Gerusalemme Orientale, Cisgiordania e Gaza liberate dalle truppe d’occupazione non importa se 60 anni dopo la geografia è cambiata. Israele dilaga nei territori occupati, insediamenti che continuano a moltiplicarsi.
Obama non riesce a fermare Netanhiau il quale dà via libera ai suoi coloni espropriando proprietà palestinesi. La sciagura dell’Iran della follia diventa alibi per la conquista di nuovi territori, insediamenti selvaggi che pietrificano la dolce campagna della Palestina mentre Usa ed Europa girano la testa. Irragionevole costringere Israele e le sue atomiche alla solitudine di chi ha diritto a confini sicuri, purtroppo da 60 anni rifiuta di dire quali. Insomma, la spartizione Onu respinta nel ’48 dai paesi arabi, è diventata l’utopia impossibile. Washington e la Gerusalemme dei falchi fanno sapere di non accettare questo tipo di riconoscimento. Non lo accettano i paesi doppio filo con gli Usa: Cile e Perù firmano (ambasciatori e bandiere ai balconi) ma non sopportano gli antichi confini che ritengono irreali, e la politica delle erosioni quotidiane premia chi ha gonfiato Israele. I palestinesi devono rassegnarsi al sogno rimpicciolito. È ultima speranza: dura, paradossale eppure senza alternativa. Credo che la Palestina disegnata a Lima abbia il valore di una provocazione per scuotere l’ipocrisia delle potenze. Messaggio che il Brasile manda agli Stati Uniti. Ormai slegato dall’obbedienza, il grande paese attraversa il mondo col protagonismo del libero battitore. E i palestinesi diventano pretesto e vittime di una scommessa appena cominciata.
Dilma Rousseff e Obama si parleranno in marzo; forse capiremo se le carte siglate a Lima sono la trama di un’ipotesi concreta o il teatro dei muscoli per chissà quali alleanze. Intanto gli arabi senza petrolio devono rassegnarsi alla pazienza. Attenzione: Lula è un vecchio sindacalista che non si arrende. Speriamo per far giustizia degli altri: sarebbe terribile se l’uomo della speranza promessa e realizzata nel suo Brasile, chiudesse questa speranza nel suo Brasile. E come un Bush qualsiasi girasse le spalle allo sfinimento dei popoli in agonia.