Nella ormai lunga militanza politica, cominciata a Napoli nei movimenti studenteschi dei primi anni ‘70 e maturata nel PCI di Berlinguer, ho vissuto tante esperienze in momenti diversi, in posizioni di dirigente di base, negli organismi territoriali, nei congressi locali ed anche nazionali.
Penso che le ultime vicende delle primarie del PD a Napoli, viziate da brogli e irregolarità (ovviamente da dimostrare), siano la manifestazione deteriore ultima di un malcostume politico purtroppo non di ora ma che ha radici più lontane nel tempo.
Il partito nel SUD è sempre stato un luogo di confronti e conflitti molto vivaci e duri, fin dalla costituzione del PCI; ricordo quel che ho letto sulle vicende di Pietro Amendola, fratello del più famoso Giorgio, protagonista di scontri nella federazione di Salerno che determinarono fratture nel partito ed ebbero ripercussioni anche nazionali, dando luogo a divisioni permanenti mai più superate.
Chi ha letto il bellissimo romanzo di Ermanno Rea “mistero napoletano” può ritrovare molti echi della sordida lotta che l’apparato di Partito portava negli anni grigi del dopoguerra al gruppo di intellettuali di “sinistra critica” di allora, emarginati per le loro idee non ortodosse ed antistaliniste.
Lo scontro delle idee ed anche l’emarginazione delle minoranze, sono state sempre un tratto caratteristico di un partito comunista forgiato nella clandestinità e nella resistenza armata, con una forte direzione centralistica e struttura organizzativa, con il vincolo ed il mito dell’unità al di sopra di ogni cosa.
Cionondimeno nel partito si discuteva liberamente e con il passar del tempo, nella fase della modernizzazione del Paese negli anni 70′, nonostante l’episodio del Manifesto con la radiazione dei protagonisti della rivista eretica, si aprivano sempre più spazi di confronto e la dialettica delle opinioni aveva un suo progressivo riconoscimento, anche se certo non sempre in modo lineare né privo di contraddizioni.
Non è un caso se a metà di quel decennio, il PCI raggiunse il suo massimo di consensi elettorali, raccogliendo le istanze della società in rapida trasformazione, risultato mai più eguagliato nel corso della storia successiva.
Nella vita di Partito, le decisioni politiche importanti si assumevano attraverso dibattiti lunghi e molte volte tortuosi ma dove molti, se non tutti, parlavano e potevano esprimere le loro opinioni; questo avveniva sui programmi ed anche nella scelta della composizione delle liste e delle candidature alle elezioni. In un modo complesso ed unico si cercava e si trovare il compromesso, l’equilibrio tra criteri, posizioni, aspettative; c’erano regole che non si discutevano se non per eccezioni. Così si formava la volontà politica collettiva.
Poi è arrivata la svolta che, nel 1989, Occhetto inventò alla Bolognina insieme ad una parte maggioritaria del gruppo dirigente centrale, nonostante le riserve di molti altri autorevoli dirigenti di primo piano; decise che l’identità ed il nome del partito dovessero cambiare e di fatto questo s’impose negli organismi dirigenti, tra dubbi e ambiguità, dando luogo ad uno scontro molto duro con tutta la parte del partito che non condivideva la svolta nei contenuti e – se non soprattutto – nelle modalità.
Il congresso che sancì la svolta fu uno dei più duri della storia del partito, la discussione assunse toni drammatici e coinvolse tutta la massa degli iscritti dando luogo a spaccature non più recuperate. In quella circostanza cominciò la pratica delle votazioni “telecomandate”: per far affermare nei congressi la mozione della svolta (ma talvolta anche da parte di chi sosteneva la mozione contraria), si usarono modi non ortodossi, considerando che le regole del partito prevedevano procedure rigorose ed i congressi erano effettivamente un momento di confronto serio; invece in quella circostanza cominciarono a comparire le figure dei “grandi elettori” ovvero di persone che per il loro ruolo, soprattutto nelle organizzazioni di massa come il sindacato, avevano influenza su molti iscritti e quindi attraverso meccanismi di persuasione esterni al dibattito dentro il Partito, molti iscritti votavano secondo indicazioni ricevute dall’esterno.
Queste pratiche determinarono ulteriori lacerazioni, rottura di rapporti a livello personale, una conta ed una guerra in cui la politica cominciava a non aver più serio conto. Del resto la realtà dei “signori delle tessere” era invalsa nella DC e poi nel PSI ma era rimasta estranea al PCI che aveva un suo preciso codice morale e aborriva quelle pratiche.
Penso che da quel momento non si è mai più tornati indietro, il partito ha cambiato tante volte nome ed anche statuto e regole, oggi quasi nessuno sa cosa siano e poi con l’avvento del maggioritario all’italiana, della politica personalizzata spettacolarizzata, la leadership è diventata una conquista da realizzare con ogni mezzo.
Le retribuzioni elevate per incarichi pubblici hanno acceso aspettative di raggiungere posizioni economiche altrimenti irrealizzabili da parte di tanti non disposti a rinunciarvi per alcun motivo e devono appunto “vincere per forza”.
Ecco che non si comprende più la natura politica delle differenze, le idee non hanno alcun valore e le lotte avvengono tra lobbies organizzate in cui le strutture di partito in quanto tali, gli organismi, non hanno più alcun ruolo.
Questo male non è solo di quel che oggi è il maggior partito del centrosinistra, anche la cosiddetta sinistra radicale o critica ne è affetta, la lotta per vincere congressi e determinare carriere istituzionali è condotta senza esclusione di colpi bassi, si può dire che è una lotta armata dove le armi sono l’uso spregiudicato dei rapporti personali e di gruppo.
Anche l’ascesa di Nichi Vendola come leader è accompagnata in alcune situazioni (come anche a Bologna) da fenomeni non molto diversi da quelli descritti e ciò contraddice il rinnovamento che s’intenderebbe imprimere alla sinistra italiana.
Se non avviene un profondo ripensamento ed una messa in discussione di queste pratiche e della cultura politica che le sottendono, non c’è alcuna speranza di determinare un vero cambiamento di prospettive rispetto al quindicennio berlusconiano e qualunque sia la proposta politica della sinistra, rimarrà minoritaria rispetto ad una destra che manterrà saldamente l’egemonia in un quadro politico senza significativi mutamenti.
Sergio Caserta è nato a Napoli. Studi in materia giuridica ed economica, dirigente di organizzazioni ed imprese cooperative, attualmente vive a Bologna e si occupa di marketing e comunicazione d'azienda. Formatosi nel PCI di Berlinguer, coordina l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (www.arsinistra.net). Nel 2005 fu tra i promotori della rete "Unirsi" (www.unirsi.it). Già consigliere provinciale di Sinistra Democratica, oggi aderisce a Sinistra Ecologia e Libertà