Sprofondando nell’appiccicoso caldo dell’estate centro-europea, viene naturale guardarsi indietro e fare due calcoli su ciò che è accaduto nei mesi passati, decisamente più freschi: di fatto ci siamo lasciati alle spalle una primavera ricca di eventi importantissimi all’interno dell’ex blocco sovietico. Elezioni politiche in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, più un nuovo Presidente della Repubblica in Polonia. E sebbene alcune similitudini di superficie possano essere scovate qui e lì (governi di colazione conservatrici spuntati sia a Praga che a Bratislava, nonostante il partito maggiormente votato in entrambe le nazioni fossero i socialdemocratici) si fanno sempre più evidenti le differenze tra gli Stati che appartennero al Patto, oramai maturi e autonomi da oltre un ventennio.
Constatazione banalotta, ma che spesso va a schiantarsi contro un sentore comune che li vorrebbe più o meno tutti simili, un brodino omogeneo di storie, paesaggi e retaggi a estendersi da Ústí nad Labem fino a Donetsk, doppiando in longitudine la divisione che fu tra Trieste e Stettino, anch’essa morta e sepolta: quel curioso «est» che ogni tanto si materializza.
Ne consegue quanto ogni sparata generalizzante (e ne emergono di nuove in continuazione) lasci il tempo che trova; per questo – raccontando una vicenda che si svolga in quest’area – è sempre bene specificare con la massima precisione dove siamo, a rischio di passare per irritanti puntigliosi. Lo scivolone sta sempre dietro l’angolo e spaventa da matti.
La scrittrice Slavenka Drakulić nel suo La gatta di Varsavia (vengo a saperlo da un articolo uscito su Repubblica) utilizza alcuni animali per raccontare le realtà locali: scopro l’esistenza di una gatta polacca e un topo praghese, assieme a un pappagallo e una maialina anch’essi di paesi che furono satelliti URSS. Il loro esprimersi su quanto è stato – i regimi totalitari crollati nel 1989 – ha lo scopo, tra i tanti, di scostarsi dalla usuale saggistica a tema utilizzando voci particolari e parlare così in modo più o meno diretto ai giovani i quali (stavolta riprendo l’intervistatrice Susanna Nirenstein) «pensano che il comunismo sia un fatto morto e sepolto, da vecchi».
Non avendo ancora letto il libro della Drakulić non posso rispondere al topo Bohumil o alla gatta Gorby, così come ignoro quanto davvero sia questo un aspetto di ciò che pensano e comunicano al lettore; perciò mi limiterò a riportare alcune brevissime impressioni sull’argomento mutuate dal girovagare oltre-cortina. In primis, il fatto che l’esperienza totalitaria non parrebbe affatto morta e sepolta tra i ragazzi, anzi ben presente. Solo, metabolizzata in modi tra i più diversi e alcuni di essi possono sì tendere a funzionare con decisione da casseforti emotive (d’altronde sarebbe forse eccessivo se l’avere trascorso un paio di lustri in un sistema politico diverso da quello attuale fosse aspetto che emergesse ad ogni discussione e in ogni contesto.) Tuttavia sembra esistere una piuttosto diffusa consapevolezza di quanto è stato e numerose tracce di ciò avrebbero poi risvolti visibili sia in politica che nel sociale.
Infatti, senza per altro forzare troppo sull’argomento, molti coetanei cechi o slovacchi o cresciuti in quella che fu Berlino Est frequentemente mi hanno raccontato ricordi e vicende legate alle rispettive infanzie in stati non democratici; il trasporto che ho potuto notare è sempre parso adeguato all’importanza dei fatti narrati. A vicende più o meno ilari come la prima banana mangiata a Köpenick (si dice con buccia, ma credo trattarsi di leggenda dalle infinite varianti locali) o l’ostracismo del mostro verde Hulk nella Cecoslovacchia di Gustáv Husák, si contrappongono storie di parenti fuggiti nella notte e ricordi ancora vivi di file e limitazioni. Oltretutto le centinaia di riviste letterarie e politiche centro-europee che proprio sulla transizione fanno perno sono gestite spessissimo da under-quaranta e (sempre nei limiti di audience per simili pubblicazioni) si dimostrano capaci di raccogliere un decoroso successo; idem – per quanto segua meno la scena – le pellicole locali, specie quelle della gloriosa tradizione balcanica, tra le quali figurano molti film di giovani registi sul tema della vita sotto il comunismo.
Stimolato dallo spunto su Repubblica proverei quindi a ribadire un concetto sul quale mi capita spesso di leggere opinioni e seguire dibattiti: vi sono -io credo- molte tracce in giro a suggerirci quanto l’esperienza dittatoriale non sia stata dimenticata dai ragazzi dell’Europa centrale e orientale, sia da coloro che ne hanno vissuto una parte sia per chi invece è nato dopo. Non parrebbe un mondo da molti etichettabile come da vecchi. Tuttavia la memoria va sempre rinfrescata e ben vengano libri e articoli a tema. Piuttosto, eventuali problemi come i nascenti nazionalismi in alcuni stati o certe simpatie per movimenti ambigui hanno trovato terreno fertile nei vent’anni successivi la caduta. Per fortuna l’assoluta ricchezza culturale della zona impone un deciso ottimismo; quello che è stato probabilmente non si ripeterà, almeno qui. Anche – ma non solo – perché il ricordo in tanti se lo portano dentro e si direbbe diffuso un bel talento nel tramandarlo.
Gabriele Merlini ha trentuno anni, lavora nell'editoria e collabora con testate e riviste online, occupandosi principalmente di tematiche inerenti l'Europa centrale e orientale. Cura dal duemilasette il sito Válečky: http://eastkoast.wordpress.com/