C’è un momento, nella vita di tutti, in cui ci si guarda attorno, si valuta il mondo in cui si è vissuti e si fanno progetti, si pensa al futuro. Guardando al futuro, a quel futuro costruito per noi, ma non da noi, la nostra generazione non ha visto niente. E’ in questo momento, attraverso una maggiore presa di coscienza, che è iniziato un cambiamento. Si! Perché la presa di coscienza sembra la vera innovazione di queste proteste studentesche, quello che le differenzia da “l’onda” che qualche anno fa si è infranta senza produrre cambiamenti, “all’inizio delle proteste, questa volta eravamo forse meno, ma più decisi, più convinti e più consapevoli che un cambiamento è necessario”. Parlando con i nostri compagni di varie facoltà italiane occupate, tra le varie linee e i vari pensieri, abbiamo trovato, sempre, un elemento comune, la disillusione. Se si prova ad insinuare che dietro di loro ci possano essere le macchinazioni di alcuni partiti la risposta è chiara e decisa: “un punto preciso che ha portato alla reazione è l’idea che oggi, al governo, nessuno ci rappresenti né tra la maggioranza né tra l’opposizione”. “Nessun amico in parlamento” e “què se vaian todos” sono alcuni degli slogan che sempre più frequentemente accompagnano manifestazioni e occupazioni, esplicando un senso d’impotenza che gli studenti, e non solo, non vogliono più sopportare. “Oltre a qualche salita sul tetto molto scenografica nessuno ha cercato di accostarsi a noi, anzi sono state più le dichiarazioni di critica che quelle di sostegno per una battaglia che tutti dovrebbero condividere visto che c’è in gioco il futuro del paese. Del ddl sull’università, oltre ai pesanti tagli e allo stravolgimento della ricerca, non si accetta che vengano portate le aziende nei consigli d’amministrazione, “così si ha una svendita della ricerca e dell’istruzione a dei privati, si arriverà ad avere poche università d’elite e molte università considerate di serie B, tornando a una realtà di 100 anni fa in cui solo alcuni potevano permettersi un certo tipo d’istruzione”. Questi sono solo alcuni punti di un decreto che viene definito “tutto sbagliato” perché figlio di un modo errato di concepire l’università stessa. Ma il decreto Gelmini, ci spiegano, non è l’unica cosa contro cui ci si batte, “è il sistema in cui viviamo che è malato, è la quotidianità con cui decisioni e azioni inconcepibili vengono fatte passare, una normalità che va spezzata, le nostre azioni mirano a svegliare le coscienze, se ci si ferma non si potrà mai arrivare ad una nuova impostazione!”.
Precariato e crisi hanno quindi alimentato questa nuova coscienza della realtà politica che ci circonda, quando i ragazzi urlano “noi la crisi non la paghiamo” non si riferiscono solo ai tagli all’istruzione ma anche alle scarse prospettive future che il riformismo gli sta lasciando in eredità. La ripresa, spiegano, deve avvenire dal basso, si deve cercare di “svegliare più persone possibili”. A differenza del passato oggi, anche grazie alla rete e ai numerosi siti di informazione e contatto come www.univ-aut.org e www.uniriot.org , le università di tutta Italia cooperano tra loro, e agiscono per un grande obbiettivo comune. Il decreto di legge Gelmini è solo l’inizio, “non ci fermeremo, l’occupazione è un mezzo, non è la protesta: l’occupazione finirà, la nostra azione andrà oltre, perché un cambiamento è possibile ed è già iniziato, dentro di noi”.
La voce di molti
Gli studenti non sono però del tutto soli: se è vero che non hanno l’appoggio (anche perché non lo vogliono) dei partiti, non si può negare che non abbiano trovato il sostegno da parte di tutte le categorie di lavoratori che vivono l’università, in primis i professori.
Il CoNPAss – Coordinamento Nazionale dei Professori Associati – si è, infatti, schierato apertamente contro il Ddl Gelmini: per la prima volta nella storia italiana le autorità accademiche e gli studenti si sono quindi uniti per difendere l’istituzione universitaria da una riforma che “metterebbe il definitivo sigillo all’opera di smantellamento dell’università pubblica realizzato con determinazione attraverso la continua riduzione dei fondi, un appesantimento amministrativo e procedurale delle attività didattiche e di ricerca e una severa penalizzazione retributiva del personale che non ha pari nella pubblica amministrazione”.
Questo nuovo “organismo” del mondo accademico raggruppa, oltre a numerosi docenti di più di 20 atenei italiani, anche i ricercatori universitari della Rete 29 Aprile e con un documento dal titolo “Manifesto per l’Università italiana” non si limita a criticare il Ddl ma vuole proporre nuove idee costruttive e migliorative per il rilancio dell’università pubblica. Si chiede una “governance ispirata ai principi di rappresentatività democratica, un equilibrio dei poteri rettorali, l’adozione di limiti e rimedi per il precariato universitario, la mobilità nazionale ed internazionale dei docenti e dei ricercatori come elemento di promozione del merito e della qualità di ricerca e didattica”.
Un documento che ha lo scopo di aprire un confronto reale e aperto su una riforma del mondo accademico che tutti ritengono necessaria perché si eviti la “morte” dell’università pubblica, una riforma che però deve essere discussa con chi ne è realmente coinvolto, professori, ricercatori, studenti, e non decisa da chi parlando per “frasi fatte” segue come legge le indicazioni del Ministero dell’Economia. Il “Manifesto” è stato inviato al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camera e Senato, al Ministro dell’Università per cercare un dialogo con le istituzioni che però sembrano sordi alle voci di ricercatori, professori e studenti, non ascoltando, in pratica, l’unica voce a cui dovrebbero dare attenzione, la voce dell’università stessa.
Quale 68’? Noi chiediamo un domani!
Dopo le proteste del 14 dicembre, con Roma ancora in fiamme, si è cercato, ancora una volta, di strumentalizzare le situazioni e in questo caso di far passare il movimento studentesco come violento e distruttivo. Ministri e giornalisti a protezione di questo pallido governo hanno attaccato con tutta la forza dei mezzi di comunicazione in loro possesso. Su giornali e tv gli accostamenti e gli aggettivi sugli studenti sono stati dei più fantasiosi possibili: minaccia all’ordine pubblico, codardi, sessantottini, terroristi e chi più ne ha più ne metta.
Parlando con chi a Roma era in piazza scopriamo che solo pochi hanno appoggiato la condotta violenta ( tra i nostri intervistati nessuno) mentre la stragrande maggioranza ha preso le distanze “così fanno solo il loro gioco e comunque la violenza non è mai il modo giusto per ottenere qualcosa” ci hanno risposto e poi “anche chi ci paragona ai sessantottini sbaglia, loro si battevano per le proprie ideologie, noi vogliamo un futuro decente”.
Solo pochi giorni dopo, durante la sorda approvazione del Decreto Gelmini del 22 dicembre, il movimento è riuscito a non cadere nella trappola e a dimostrare pacificamente tutta la sua forza, una forza che non si basa sulla violenza distruttiva ma sulla speranza costruttiva di una generazione che crede in un domani diverso.
[Fine]
GLI AUTORI DI QUESTA INCHIESTA:
Giuseppe Labellarte
Guido Medici
Giuseppe Labellarte e Guido Medici frequentano il Corso di Laurea Magistrale in Giornalismo e Cultura Editoriale all'Università di Parma.