Volevo solo scrivere della scuola. Nei giorni in cui gli studenti e tutto il personale scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, ricordando che l’istruzione non è una merce, volevo solo fare l’intervista a un insegnante. Vedere i cambiamenti in atto nel mondo scolastico attraverso i suoi occhi e la sua esperienza. Nulla di tanto originale, solo una testimonianza. È così che ho chiesto ad un amico, giovane professore di filosofia in un istituto privato, di darmi alcuni contatti con i suoi colleghi della scuola pubblica, per qualche domanda.
Ma mi sono imbattuta in un fatto “curioso”, di quelli che lasciano la bocca amara. Non solo non ho trovato risposte. Non ho trovato volti disposti a scoprirsi, a lasciare che una penna rendesse pubbliche le loro opinioni, le loro argomentazioni. Il timore di esporsi a volte tentava di nascondersi dietro scuse semplici, altre disvelava il perché di quella ritrosia: “Niente interviste. Preferisco di no. Il mio contratto scade tra pochi mesi. Ho bisogno di quel rinnovo, ma parole scomode potrebbero rappresentare un ostacolo. Non posso permettermi di rischiare. Ne va del mio lavoro”.
Certo, non mi fossi fermata a quella decina di persone, avrei sicuramente trovato insegnanti disposti a parlarmi, a lasciare il loro nome sulla carta stampata. Ma questo episodio mi ha fatto riflettere: nella scuola precaria i contratti a scadenza, talvolta addirittura trimestrale, diventano il “bavaglio” degli insegnanti. Strumento di ricatto che limita la libera espressione delle idee. Contratti a progetto che svuotano la scuola delle sue possibilità, primarie per i singoli e per la collettività intera.
Insegnanti che non godono della serenità della loro condizione, ma che sono costantemente sottoposti al dubbio del domani, indaffarati a sbarcare il lunario e a cercare spazi alternativi qualora il loro contratto non venga rinnovato, non riescono ad essere dei solidi formatori. Ragazzi che non possono contare sulla minima continuità didattica, si ritrovano “programmi coi buchi”, mancano di metodo e di punti di riferimento.
Ma la precarietà non lede solo così alla qualità dell’insegnamento. Divenendo ricatto che porta l’autocensura sgretola quello che dovrebbe essere il luogo privilegiato della formazione delle idee e della loro circolazione. Impedisce il ruolo, fondamentale, che la scuola dovrebbe avere: quello di formare menti critiche e libere. Le menti dei cittadini di domani, consapevoli e responsabili.
Per riprendere uno slogan che è stato usato in difesa del diritto all’acqua pubblica in questa stagione di iperiliberismo, mi viene da dire “Si scrive Scuola, ma si legge Democrazia”. O forse, ancora più indietro, ancora più in fondo: “Si scrive Scuola, ma si legge Libertà”. Di solito non amo gli slogan, spesso mi sembra che banalizzino i contenuti in favore della retorica, ma adesso che anche i diritti fondamentali diventano oggetto di trattativa, bisogna tornare a riaffermare con forza i principi su cui si basa la nostra società. Ciò che sembrava consolidato, ormai certo, quasi scontato torna a vacillare. E noi, dobbiamo riappropriarcene.
Giada Oliva, giornalista, si è occupata a lungo di Paesi in via di sviluppo e di cooperazione internazionale. Attualmente lavora nell'ambito della comunicazione politica e continua a seguire ciò che accade dall'altra parte del pianeta.