«Aspetto che le autorità mi intervistino per avere il permesso di soggiorno – ci spiega Abdul, uno degli ospiti del Centro Accoglienza Richiedenti Asilo – ed ho una grande paura che me lo rifiutino». Ha 27 anni e viene dal Sudan. Davanti ad una tazza di thè, lontani dal Centro Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA), Abdul, in un italiano ancora stentato, si rilassa e racconta di sé, della sua fuga iniziata quattro anni fa, del suo arrivo a Lampedusa ed, infine, a Trapani. Gli piace farsi chiamare Ballah come faceva la sua famiglia. I suoi occhi neri e il suo sorriso si rabbuiano al pensiero di un rimpatrio. «Non posso tornare in Sudan. Non sono un delinquente scappato di prigione, come mi sento dire spesso qui, non posso tornare perché da tanti anni nel mio paese c’è una guerra che non capisco. Non so neanche perché sia scoppiata. So solo che il mio Governo, quand’ero piccolo, ha messo un fucile in mano a me e a mio fratello. Mio fratello è morto e io sono scappato per non finire come lui». Le sue labbra hanno un fremito. Al ricordo del fratello o di un fucile in mano ad un bambino: «Se torno mi arrestano perché ho abbandonato l’esercito. E la prigione in Sudan non è come in Italia. Lì in carcere si muore».
Come sei riuscito a scappare?
«Volevo andarmene via. Non volevo morire. Non volevo più sparare a nessuno. Quattro amici, anche loro soldati, hanno procurato un fuoristrada ed insieme abbiamo attraversato il deserto libico. Per sette giorni abbiamo guidato in mezzo alle dune. Affamati. L’acqua era pochissima e dovevamo dividerla in parti uguali. Potevamo berne quattro o cinque bicchieri il giorno per uno ma, siamo riusciti a sopravvivere».
Cos’è successo dopo?
«In Libia abbiamo vissuto giorni molto brutti. Chi ha il colore della pelle come il mio Gheddafi lo considera nemico. Non so perché. So solo che, notte e giorno, dovevamo nasconderci e scappare dai soldati libici, perché se ci avessero trovato, ci avrebbero derubati ed uccisi. Siamo rimasti qualche mese lì ed è stato molto difficile».
Come sei arrivato a Trapani?
«In Libia mi hanno detto che era possibile imbarcarsi in Tunisia per arrivare in Italia. Servivano 900 dollari. Sono riuscito a procurare i soldi e a salire sulla barca. Eravamo 140 in una piccola imbarcazione, tutti uomini. Era gennaio e il mare era brutto. Ci sono state onde alte per tutto il viaggio. Dopo quattro giorni siamo stati avvistati da un elicottero della Polizia. Ci hanno presi e portati in salvo a Lampedusa. Nessuno di noi è morto, ma avevamo freddo, eravamo stanchi, affamati».
In questi ultimi anni dove hai vissuto?
«Dopo Lampedusa sono rimasto tre anni a Palermo, ma mi hanno trovato senza documenti e mi hanno portato qui a Salinagrande. Hanno preso le mie impronte e ora aspetto il permesso di soggiorno».
In Italia cosa sognavi di trovare?
«Volevo essere libero. Volevo un lavoro, una casa, ma ho capito che qui non è possibile. Non c’è lavoro e chi ti fa lavorare non ti mette in regola. Voglio andare via dall’Italia. Non so dove: in Francia, in Germania forse… Quando troverò un lavoro e una casa farò venire da me mia madre e le mie sorelle».
Come vivi a Trapani?
«Qui al Centro si sta bene. Gli assistenti sociali ci trattano bene e anche i poliziotti. Mangiamo tre volte il giorno e abbiamo un posto dove dormire. Ci sono però molte risse e qualcuno fra noi ruba. Non possiamo lavarci o stendere della biancheria perché rischiamo di non trovarla più. Questo non è giusto».
E la gente di Lampedusa?
«Anche con loro va bene. Se noi siamo tranquilli ci lasciano stare. A volte qualcuno ci parla, ma non capita spesso. Forse pensano che siamo ignoranti».
Come passi qui al Centro le tue giornate?
«Non abbiamo molto da fare. Giochiamo a carte, al pallone. Io da qualche giorno ho un cagnolino e gioco molto con lui. Di pomeriggio ogni tanto andiamo a Trapani, ma non sempre: sono 15 chilometri a piedi da qui e a volte non ce la sentiamo. Ci sono gli autobus, ma non abbiamo soldi per prenderli e molte volte gli autisti ci fanno scendere».
Ogni pomeriggio, la strada provinciale che da Salinagrande porta a Trapani (“Via Libica”, per ironia del destino) si popola di passi stanchi e sorrisi forzati. Raramente qualcuno chiede un passaggio. Raramente qualcuno si ferma. «La strada – ci spiega Salvatore Tallarita, presidente dell’Osservatorio delle Contrade di Trapani Sud- è molto pericolosa. Non esiste un marciapiede ed è quasi completamente al buio. Il rischio che qualcuno di loro venga investito da un’auto, è altissimo. Ma non è l’unico problema qui. Non esistono iniziative o progetti per coinvolgere questi ragazzi in qualche modo. Le loro vite e le nostre viaggiano su binari paralleli»
A Trapani le voci che circolano non sono per niente rassicuranti. Si dice di tunisini che rubano ed occupano case di villeggiatura. Libici scappati di prigione. «L’ottanta per cento dei neri che arrivano – sbotta un poliziotto – è evaso dalle carceri. Come facciamo a fidarci? Io posso sempre mettere mano alla pistola, ma chi non l’ha una pistola? Come fa difendersi?».
«Si dice – mi racconta Giovanna, 16 anni, studentessa – che hanno delle malattie. A Kinisia i poliziotti avevano tutti le mascherine!». «Trapani non è razzista. – spiega ancora Tallarita – Da sempre ospitiamo profughi, richiedenti asilo, clandestini. Certe affermazioni sono solo legate alle false informazioni e all’ignoranza e probabilmente cadrebbero nell’oblio se solo la gente guardasse negli occhi questi ragazzi e ne conoscesse meglio le storie».
Intanto, sotto il sole rovente di Trapani, l’ex aeroporto di Kinisia sembra attendere il proprio destino. Diventerà forse un Centro di Identificazione ed Accoglienza (CEI) ed ospiterà probabilmente i prossimi arrivi dalla Libia. Intanto, dei 700 migranti giunti a Trapani da Lampedusa alla fine di marzo non è rimasto più nessuno. Metà di loro ha già ottenuto il permesso di soggiorno temporaneo ed ha raggiunto lidi più accoglienti di un’Italia deludente ed inospitale. I circa 300 ancora in attesa sono invece ospitati presso il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Salinagrande. Fra risse, paura ed attese interminabili.
Natya Migliori, giornalista ed insegnante precaria, nasce a Catania nel 1974, è laureata in filosofia ed insegna lettere nelle scuole secondarie superiori. Dal 2005 collabora con Art. 21 e cura le sceneggiature della Gemini Movie
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