Con la dichiarazione della Merkel sul fallimento del modello multiculturale in Germania, si va completando la svolta xenofoba Europea. Secondo i sondaggi, se oggi un partito xenofobo si presentasse in Germania, prenderebbe sul 15% dei voti. Paesi simbolo della tolleranza a rifugiati di tutta Europa, come l’Olanda, o di grandi valori civici, come la Svezia, sono solo gli ultimi casi di governi condizionati da partiti che chiedono l’espulsione degli stranieri, ed il ritorno ad una nazione pura ed omogenea.
Secondo le Nazioni Unite (UNFPA, 2009), l’Europa dovrebbe accogliere entro il 2015 almeno 20 milioni di immigrati, per restare competitiva sul piano mondiale. L’invecchiamento della popolazione è così rapido, che per la prima volta nella storia coloro che hanno più di 50 anni ( e che si avviano alla pensione) sono in numero maggiore di coloro che ne hanno meno di 18. Il sistema previdenziale è destinato quindi a una crisi strutturale, se non vi saranno sufficienti lavoratori per pagare i contributi.
Sempre secondo le Nazioni Unite (OIL, 2010), circa il 35% dei giovani è oggi disoccupato, ed il 50% degli occupati guadagna meno di 1.000 euro al mese. Oltre il 73% ha contratti precari o a termine. In queste condizioni, è impossibile ottenere un mutuo dalle banche, e si calcola che quando andranno in pensione, avranno circa di 420 euro attuali. La OIL parla di una “generazione persa”.
Dal suo canto, il Fondo Internazionale Monetario prevede che occorre attendere sino al 2015, per uscire dalla crisi del 2008. Ma numerosi economisti, fra cui Stiglitz e Krugman (ambedue premi Nobel), sostengono che occorre attendere almeno il 2020, certamente per l’Europa. L’Unione Europea, l’innovazione senza precedenti, disegno politico di grande forza e di garanzia per i cittadini, oggi viene vista come una camicia di forza, una barca in cui siamo tutti obbligati a traghettare non si sa per dove, con zavorre come la Grecia, con dirigenti invisibili come la Ashton e Van Rompuy, e che invece di dare sicurezza aumenta l’incertezza.
La scorso mese l’Europa ha ricevuto una umiliazione senza precedenti, nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha rifiutato di elevare il suo stato di osservatore. Alcuni degli alleati tradizionali, come l’Australia, il Canada e la Nuova Zelanda, si sono astenuti, Paul Luit,il direttore per l’Europa dell’Istituto Austriaco per gli Affari Internazionali, ha dichiarato: “La sconfitta dell’Unione è più di una umiliazione. Dimostra il crescente isolamento dell’Europa, che viene vista ancora meno efficiente delle Nazioni Unite”.
La identità europea era indissolubilmente associata alla difesa dei Diritti Umani. È stata una condizione fondamentale nell’allargamento ai Paesi dell’ex blocco sovietico. Ma quest’anno 127 paesi sui 192 membri dell’assemblea generale hanno votato contro l’Europa su questi temi,contro i 117 l’anno scorso. Inoltre, solo la metà dei Paesi democratici hanno votato con l’ Europa, il più delle volte, Nel 1990, aveva l’appoggio del 70% nelle votazioni su questo tema. Oggi, è al 42%, vicino al 40% degli Stati Uniti, e sotto il 60% della Cina e della Russia, notariamente estranei ai valori europei. In altre parole, l’Europa sta rapidamente perdendo la sua funzione di riferimento mondiale.
Se passiamo alla immagine dell’Europa come potenza economica e commerciale, la situazione è ancora peggiore. Non solo la bilancia dei pagamenti si va squilibrando sempre di più, ma con l’eccezione della Germania tutti i Paesi europei vanno perdendo progressivamente quote del mercato mondiale. Secondo le proiezioni della Organizzazione Mondiale del Commercio ( 2010), l’Europa, se non inverte il trend attuale, sarà superata dalla Cina come motore dell’economia mondiale il 2015.
Mentre questi dati non toccano certamente l’uomo della strada, il declino della credibilità delle istituzioni europee e il crescente divario con le istituzioni politiche lo tocca da vicino. L’Eurobarometer del 2010, indica che solo il 52% dei cittadini europei è ancora disposto a votare. E, cosa ancora più grave, solo il 61% dei giovani. Ormai l’unico governante europeo con fiducia popolare rimane Cameron, con il 61% di popolarità. Ma probabilmente fra un anno l’indice è destinato a scendere. Da Sarkosy a Zapatero, dalla destra alla sinistra, la stanchezza degli elettori è evidente.
Le analisi politiche della storia moderna ( e non solo), hanno provato che in caso di incertezze, di dubbi e di decadimento economico e sociale, la democrazia entra in crisi, perchè il cittadino cerca sicurezza, e per questa è disposto a ridurre il suo spazio di libertà e di espressione personale. Come dimostrano le vicende dell’Asia e dell’America Latina, i decenni di sviluppo hanno portato alla riduzione di regimi militari o di dittature, mentre in Africa non a caso succede il contrario. Ed il primo sintomo del declino della democrazia è la ricerca di un capro espiatorio. Una volta erano gli ebrei: oggi sono gli immigranti.
E rappresentativo della pochezza della classe politica europea, che nessun governo abbia cercato di fare una politica di educazione dei propri cittadini sulla importanza degli immigrati per lo sviluppo nazionale, e si sia lasciato dilagare il mito della perdita di posti di lavoro degli Europei, e che gli immigrati rappresentino un pericolo per l’ordine pubblico. Oggi circa il 70% delle nuove imprese sono iniziativa di immigrati ( OECDE, 2099), e solo l’1% di essi è coinvolto in attività criminose (anche se rappresentano una parte importante della popolazione carceraria). Ma che una parte importante della popolazione europea veda negli immigrati la minaccia più diretta alla loro sicurezza, alla loro identità, ed al loro stile di vita, è la miglior cartina di tornasole per sapere che l’Europa, invece di affrontare i suoi problemi con responsabilità e scelte difficile, preferisce una fuga in avanti, seguendo le paure degli elettori, e cavalcandole.
La stessa situazione, in modo ovviamente profondamente diverso, si presenta negli Stati Uniti. La crisi finanziaria, la disoccupazione che forse non si può ormai più eliminare , la perdita della propria casa di milioni di persone, la impossibilità di pensionarsi e di dover continuare a lavorare per sopravvivere, l’aumento della povertà ad un americano su 10, taglio di servizi, di scuole, di infrastrutture di stati sempre più indebitati, hanno prodotto un risultato scontato: la sfiducia verso il governo, al punto tale da lasciare Obama con una approvazione pubblica del 43%, ed avere il 49% degli intervistati dalla CNN dichiarare che preferiscono Bush ad Obama. Le elezioni di novembre vedranno un ridimensionamento dei Democratici, che renderà ancora più difficile la seconda metà del governo Obama (elezioni il 2012, come in Cina, in Italia, in Russia ed altri 27 Paesi). E questo nonostante Obama sia riuscito a compiere riforme di grande importanza: da quella, quasi intera, del sistema sanitario, a quella abbastanza ridotta del sistema educativo, a quella infine molto timida del sistema finanziario.
Comunque la sinistra lo accusa di aver tradito le promesse elettorali. E la destra? La destra ha creato un fenomeno spontaneo, il Tea Party, che si considera discendente diretto della rivolta dei cittadini delle colonie inglesi che nel 1872 ne porto di Boston gettarono a mare il te che proveniva dall’Inghilterra, pur di non pagare le imposte decise dalla corona. Ed anche qui siamo davanti ad una fuga in avanti, altra cartina del tornasole di una crisi profonda, che negli americani è dovuta oltre a fattori interni alla consapevolezza che il loro Paese sta perdendo il ruolo di “Destino Manifesto”: cioè che gli Stati Uniti sono diversi da qualsiasi altro Paese, ed i valori americani sono sempre universali, e sono destinati a governare il mondo.
Il Tea Party è composto da due grandi filoni: quello che vuole ridurre il governo alla minima espressione: che considera Obama un pericoloso socialista che vuole fare degli Stati Uniti una seconda Europa. Quindi il taglio massimo delle tasse, ed il cittadino libero. E poi un secondo filone, che crede che il declino americano sia una cospirazione internazionale, ed è ora di mettersi i pantaloni e togliere gli inefficienti intellettuali come Obama dalla scena.
I candidati del tea Party sono anzitutto antidemocratici, visti come i classici difensori dello stato e della sua responsabilità sociale. Si collocano quindi nell’area repubblicana, che però vogliono radicalizzare. Essendo un movimento popolare, l’establishment repubblicano, da Mac Cain a Romney, ha cambiato lo stile elettorale per cercare di cooptarli e controllarli. Ma non sarà facile. Si tratta di una collezione di personaggi in cerca di autore. Tra i candidati a senatore e deputato ( con molte vittorie nelle elezioni interne),si va da Joe Miller in Alaska, che vuole chiudere i sussidi di disoccupazione perché sono incostituzionali, a Ben Buck del Colorado che oppone la separazione tra Chiesa e Stato:a la Signorina Angle, del Nevada, che dichiara che il fondo di compensazione che Obama ha chiesto alla BP per il disastro nel Golfo del Messico è “un fondo comunista”; alla signorina O’Donnel, che vede equivalente la masturbazione con l’adulterio: a Rand Paul, del Kentucky, che vuole eliminare ogni sussidio per disabili. Vi son ben quattro candidati (Utah,Michigan,Wisconsin e Florida), che sostengono che Obama non è nato negli Stati Uniti, e che quindi non può essere preidente. Tutti si rifanno alla Palin come candidata a Presidente della Repubblica nel 2012, ad un aumento delle forze militari, ad un affrontamento deciso con la Cina, ed ad obbligare gli inaffidabili Europei ad assumere la loro parte di alleanza non discutibile con gli Stati Uniti.
Queste derive dell’Europa e degli Stati Uniti, avvengono mentre non solo la Cina, l’India ed il Brasile, ma diversi Paesi emergenti, dall’Indonesia alla Malasia, dalla Corea all’Argentina, hanno ritmi di crescita molto superiori. Una delle caratteristiche delle crisi è che i protagonisti non hanno più la capacità di vedere al di là del loro mondo. Ma secondo le proiezioni delle Nazioni Unite (Unctad, 2010), la Cina supererà gli Stati Uniti fra 10 anni. Ce la farà il Nord del mondo a smettere di cercare capri espiatori, di fuggire in avanti, e di cominciare a fare una politica che regga alla sfida dei tempi, quando sia ancora in tempo? Chi scrive non ne è affatto convinto.
Roberto Savio è cofondatore e segretario generale di Media Watch Global, sede a Parigi. Nel 2001 è stato uno dei promotori del Foro Social Mondiale. Attualmente coordina la Commissione di Comunicazione del Consiglio Internazionale. È tra i promotori di un progetto di informazione impegnato nello sviluppo, dell’agenzia di notizie Inter Pres Service (Ips), della Techonolical Information Pilot System (Tips), della Rete di Informazioni Internazionali per Carabi e America Latina (Asin) e del servizio latinoamericano Alasei e Women’s Feature Service (Wfs). Gorbaciov lo ha voluto membro del Comitato Scientifico del Foro Politico Mondiale. Negli Stati Uniti presiede la direzione della Alleanza per l’Umanità. Nato a Roma, cittadino argentino, ricercatore economico in una Università italiana, ha lavorato alla Rai Tv come direttore dei notiziari per l’America Latina.
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