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Continua il cammino di Ettore Masina sulla strada di monsignor Romero, assassinato sull'altare in Salvador. Per la chiesa luterana e per le Nazioni Unite è il santo dei popoli delle Americhe. Per il Vaticano ancora no

L’arcivescovo deve morire

07-04-2011

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L'arcivescovo deve morire di Ettore MasinaDire che Oscar Romero sceglie il Vangelo, come programma di vita, sembra cosa ovvia. Invece no. Il Vangelo è di pratica difficilissima, perché estremamente esigente. Anche tra gli uomini di Chiesa, quasi nessuno lo pratica nella sua esclusività. Il Vangelo è Cristo Gesù. E Gesù vuole che il suo discepolo sia come lui, in forma integrale.

Romero sente la vocazione di dare la vita a Cristo. Risponde con una trasparenza e con una fedeltà immediate. Da seminarista e poi da giovane sacerdote le sue scelte sono coerenti e anche massimaliste. Per un suo rigorismo, forse esasperato, non si fa amare dai confratelli e ben poco dai superiori. È un perfezionista non compreso, spietatamente censurato, anche se il suo credo e il suo impegno ascetico sono «sentir con la Iglesia».

Bellissimo e inequivocabile in lui, fin dagli inizi della sua missione, è l’amore appassionato e incondizionato degli «ultimi». Gli danno perciò incarichi di ogni genere, perché intelligente e pastoralmente propulsivo. Nella pubblica opinione la stima della sua personalità atipica è reale, anche se problematica e diffidente. Rimane infatti antipatico e indigesto, quasi a tutti. Roma lo sceglie ben presto come vescovo, perché Romero è un conservatore, fedelissimo al papa.

Puntualmente «il nuovo vescovo» intraprende la lotta contro tutti gli «aggiornamenti» indebiti che possono ledere il «deposito della fede». La sua opera diventa zelantissima e facilmente indisponente.

Fin dall’inizio l’incomprensione con i suoi confratelli vescovi si fa evidente e sconcertante. Eppure, un osservatore spassionato che lo incontra a Puebla, Bartolomeo Sorge, confessa: «Nei confronti di monsignor Romero mi dovetti ricredere. Lo trovai completamente diverso da come me lo avevano dipinto a Roma, negli ambienti della curia. Equilibrato, non fanatico; amante della Chiesa e del papa, non un libero battitore; uomo di preghiera e umile, nient’affatto attaccato al proprio giudizio e alle proprie idee; soprattutto con un grande amore per i poveri e per i suoi campesinos».

È certo personaggio di altissima qualità e ingombra il campo di tutti i carrieristi. Romero non ha calcoli di prestigio, accetta i contrasti quasi con simpatia pur di affermare la purezza del Vangelo. Al culmine delle sue disavventure, quando gli rimane solo qualche giorno di vita, di fronte al fare sprezzante del visitatore di Roma, Lajos Kada, dirà: «L’unica cosa che importa è la radicalità del Vangelo».

Questo Vangelo lo porterà a compiere vere «trasfigurazioni» nella sua vita.

È per me un prodigio che Romero, in una Chiesa piuttosto assente, sappia rivedere il Vangelo nella dimensione della compassione per l’uomo, della comprensione, della misericordia, del perdono, della «salvezza di ciò che è perduto» (Lc 19, 10).

Questo «essere nuovo» ha inizio con l’assassinio di padre Rutilio Grande, il 12 marzo 1977. Progressista, questo gesuita, ma apostolo della gioventù e amico dei campesinos. Nonostante la divergenza delle idee l’amicizia fra i due è grande. «I campesinos rimasero orfani del loro padre e del loro strenuo difensore. Davanti
alle spoglie dell’eroico gesuita, capii che ora toccava a me prenderne il posto», dirà Romero con candore.

I biografi pensano a un colpo di fulmine, a una svolta sostanziale della vita. Io ritengo che c’è una chiamata speciale del Signore, come egli confida, scrivendo a Giovanni Paolo II, da poco eletto pontefice: «Ho creduto in coscienza che Dio mi chiedeva e mi dava una speciale fortezza pastorale, che contrastava con il mio temperamento e le mie inclinazioni conservatrici. Ho creduto un dovere pormi decisamente in difesa della mia Chiesa, a fianco del mio popolo tanto oppresso».

Questa nuova testimonianza di estrema generosità trova intorno a sé la diffidenza totale dei suoi confratelli e del governo, che amano ormai classificarlo da un lato come esaltato, dall’altro come comunista. Le varie componenti del rigetto sono coalizzate con la calunnia e con gli improperi, per screditare a Roma il vescovo della riscossa del Salvador. Fa sconcerto constatare che, all’interno della Chiesa, le accuse pesanti vengono rivolte a un vescovo che si rifà profeticamente al Vangelo, e non sa piegarsi nelle articolate condutture della politica.

Eusebio di Cesarea proclamava la necessità dell’impero per salvare la Chiesa. Forse nei secoli questo è diventato un vizio inestirpabile. Eppure il Vangelo c’è. Sempre infallibile, a patto che venga accolto sine glossa, come Francesco. Noi abbiamo la sorpresa felice di rivedere il Vangelo, professato sine glossa, anche nel nostro tempo, con Romero. Poi il popolo Credo che Romero sia l’inventore del «popolo». Sempre esistito, beninteso, ma come categoria di confronto diretto con la Chiesa, no. C’è il «prossimo» del Vangelo, che bisogna amare incondizionatamente. Il «popolo» ha un carattere civile, che sembra separato dalla economia della salvezza. È comunque «il popolo della riscossa».

Il popolo anonimo, il popolo perseguitato, il popolo non capito, il popolo permanentemente orfano. Con Romero non è più vittima e sconfitto. Egli lo riporta nella verità della Chiesa, rendendolo la passione della sua missione evangelica. Romero desidera morire per il «Cristo» e desidera morire per il «popolo». Nelle omelie domenicali della messa del mattino, dopo aver commentato la Parola di Dio, passa alla considerazione della situazione del Paese: «Non possiamo separare la Parola di Dio dalla realtà storica, altrimenti la Bibbia rimarrebbe un libro devoto; ma è Parola di Dio perché anima, illumina, contrasta, ripudia, elogia quanto accade oggi in questa società».

A Puebla, l’amico Helder Camara convince Romero che esiste una concezione originaria di liberazione cristiana, intesa come sintesi armonica tra evangelizzazione e promozione umana. È una liberazione che si va realizzando nella storia dei popoli e in quella personale. Abbraccia le differenti dimensioni dell’esistenza: sociale, politica, economica, culturale. Tocca il complesso delle relazioni. La forza germinale di questa liberazione rimane il Vangelo. Romero non è una persona normale, perché non è come le altre. Non è un profeta, sul tipo di quelli antichi. Non è un nuovo martire della carità. È eucarestia, colui che dona il suo corpo e il suo sangue per il bene e la salvezza del popolo, di tutti i fratelli.

Viene ucciso sull’altare il 24 marzo 1980, mentre canta l’inno della vita: «L’ostia di grano si converte nel corpo del Signore e la nostra persona si converte nel sacrificio del Signore per donare la liberazione e la salvezza al nostro popolo».

È più degli altri martire, nel senso che vuole il sacrificio di sé, come costruzione di una umanità nuova: ha lo Spirito del Cristo Salvatore. Martini già aveva riconosciuto che «Romero si era lasciato convertire dal suo popolo». E «viene ucciso perché fatto popolo», sostiene Turoldo. Al punto che nel privato, sottovoce, Romero ripercorre le note di un cantautore che piange la morte di padre Rafael Palacios: «Dio non sta nel tempio, ma nel popolo». Giovanni XXIII, in apertura del Concilio, parla del «balzo in avanti» che la Chiesa deve compiere per uscire dall’epoca tridentina e iniziare un profondo aggiornamento (Gaudet mater ecclesia).

Il fulcro di questo grande movimento riformatore della Chiesa, il «balzo in avanti» della vita riconquistata, raggiunge la massima espressività nella testimonianza di Oscar Romero. La sua missionarietà integrale abbraccia l’illuminazione dello Spirito del Concilio che vuole condurre la pastorale da una «ecclesiologia societaria, giuridica, a una ecclesiologia di comunione».

Si passa, cioè, dalla Chiesa come «societas perfecta» alla comunione del «popolo di Dio in cammino nella storia». Un popolo cui appartengono i fedeli cattolici, gli altri credenti in Cristo e tutti gli uomini (LG 13). La vocazione e la missione dei «laici» nella Chiesa e nel mondo, che sarà il grido dell’anima di Romero, trovano finalmente la giusta collocazione nella nuova pastorale conciliare.

Il «popolo» diventa la storia di Dio. Il «balzo in avanti» costruisce la «modernità» della Chiesa, confermava Paolo VI. Viene formulata infatti la «teologia delle realtà terrestri», che permette alla Chiesa di uscire dalla stagione della «cristianità» per abbracciare l’ottica evangelica della «laicità», giustamente intesa. L’incarnazione si compie nella storia dell’umanità, attraverso tutte le epoche e tutte le culture.

La Chiesa fa proprie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, sentendosi realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia» (GS 1). Sono conquiste che fanno «risorgere Romero nel cuore del suo popolo».

Vera rivoluzione copernicana è per la Chiesa e per il mondo il riconoscimento del «primato assoluto della Parola di Dio». La teologia postridentina poneva di fatto sullo stesso piano la Scrittura, la Tradizione e il Magistero. Doverosamente la Scrittura diventa la fonte primaria, da cui promanano la teologia e la vita cristiana.

È il Cristo «contemporaneo», di cui parla Kierkegaard. È Gesù che raggiunge te adesso, in diretta, con la sua Parola di cui tu sei la risonanza e la corrispondenza in prima persona, senza costringenti mediazioni. È finalmente la benedizione solenne che la Chiesa dà a Romero, che visse, soffrì e morì per risorgere felicemente nel Vangelo di Gesù. Questo Vangelo, unico bene del nostro essere uomini, che sconcerta in modo tremendo!

Perché i «martiri innocenti»? Una sofferenza radicale che sembra esplodere da una reale mortificazione di Dio. E Gesù, il figlio. Colui che soffre per la incontenibilità dell’amore, costretto a dare a tutti ciò che lui è. Con loro sta anche Romero. È talmente un atto d’amore il suo soffrire, da sembrare una compiacenza del Padre.

Forse è qui il senso della storia umana, il morire per generare la vita: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, vi dico: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”» (Gv 12, 24). Rimane perciò superfluo chiedersi perché non vengo-
no canonizzati questi personaggi. Sono al di là di ogni classificazione canonica.

Anche se cadono, rimangono palpitanti di energia e sono naturalmente fecondi. Ed Ettore Masina Ettore Masina scrive una grande biografia di monsignor Romero.

Dire «grande» è semplicistico, perché questo racconto di una vita straordinaria assume una pregnanza di dettato che comunica nella forma più seducente e provocatoria. È una scrittura in diretta che devi assorbire, perché senti la sua ricchezza appartenere al tuo spirito. La vicenda di Romero è penetrata fino alle radici dell’essere uomo e credente di Masina. Lui perciò ricrea il personaggio con l’autenticità e con la plasticità del grande artista. La narrazione di Masina raggiunge in profondità la parola del Vangelo di Oscar Romero e non ti permette spazi di sogno e di divagazione, ma sì di forte emozione e di conversione.

La documentazione è imponente. Si ha l’impressione che non esista un dato della vita di Romero di cui Masina non sia a conoscenza e che non elabori con precisa competenza. Le lettere, le omelie, le testimonianze scritte di Romero vengono ordinate dall’autore con puntualità, quasi a rendere la biografia una vera antologia degli scritti sapienziali di Romero.

«Un tesoro non più nascosto» che deve rilanciare la speranza di una Chiesa piuttosto stanca e smarrita, perché possa continuare a sovvenire alle attese dell’uomo.
È una biografia, quella di Romero, dove si può rivivere la vicenda umana e spirituale di Ettore Masina. Uomo di fede e di grandi passioni, Masina ama quella
Chiesa di Cristo che è benessere e speranza dell’umanità. L’ama in virtù di quel «balzo in avanti» che ha rivelato il volto più bello di essa.

Masina appartiene alla schiera di quegli «uomini della sintesi» che si battono per aprire la Chiesa al mondo, per mantenere una coesione di intenti tra vita morale e professione, in particolare tra evangelizzazione e promozione umana.

Non più una Chiesa ripiegata su se stessa, ma protesa a portare Cristo e a servire l’uomo più che a ottenere riconoscimenti di diritti ecclesiastici. Essere cristiano non significa contrapporsi al profano, ma assumere e sostenere il bene ovunque si trovi, mostrando come tutto si integra nella prospettiva del Vangelo. Masina è al di fuori degli schemi preconfezionati, è un «laico» che ha sempre cercato di assumere in proprio le aspettative dell’uomo e le responsabilità della sua Chiesa. La Chiesa ufficiale non è stata sempre benevola con lui. Ma in nome di Romero, Masina ha sempre compreso e anche obbedito.

questo testo è la la prefazione di Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, all’ultimo libro di Ettore Masina, “L’arcivescovo deve morire”, pubblicato dalla casa editrice Il Margine di Trento

Raffaele Nogaro è vescovo emerito di Caserta.
 

Commenti

  1. Paolo Mombelloni

    Dio ci scampi anche dai Santi! Ricordatevi fratello, che essi sono stati spesso la croce,l’afflizione della Chiesa prima di esserne la gloria! (Bernanos, “Diario di un curato di campagna”)
    Sentii una volta un alto prelato dire che se mons. Romero fosse restato alsuo posto non gli sarebbe accaduto nulla!
    Pensai poi, riflettendo, che forse anche Gesù se fosse restato al Suo posto non sarebbe finito in Croce…

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