Era la seconda volta che a Verdi facevano quello scherzetto: la censura gli bloccava un lavoro quando ormai era quasi finito. La prima avvenne a Venezia per il Rigoletto, adesso toccava al Ballo in maschera. Originariamente il “Rigoletto” da “Le roi s’amuse” di Victor Hugo che ripercorreva le scorribande amorose di Francesco I di Valois re di Francia (amicone di Enrico VIII al Drappo d’oro e poi tradito da costui dopo l’alleanza con il ‘nipote’ Carlo V; mecenate di artisti italiani ma da Vasari definito un predatore d’opere d’arte nostrane, come quasi tutti i francesi che hanno transitato qui da noi, del resto; despota e tiranno come tutti i suoi predecessori e successori tanto che si dovette arrivare alla Rivoluzione francese) venne censurato perché le teste coronate non possono essere messe alla berlina per i loro amorazzi (e comunque si vorrebbe lo stesso anche per i governanti senza corona dei giorni nostri) e quindi Francesco I di Francia fu declassato a Duca di Mantova (rilevante come questo Duca non abbia nome proprio, ma solo quello fasullo che esibisce all’ingenua Gilda: Gualtier Maldè) e la censura dette il nullaosta.
Con “Il ballo in maschera” la storia si ripete a Napoli: i re non si toccano, non si rammenta alla popolazione che i regnanti possono essere oggetto non solo di riverenza ma anche di odio, e quindi l’attentato alla vita di un sovrano non può essere tollerato dalla censura di uno Stato totalitario come era quello dei Borboni di Napoli. Grandi baruffe con la direzione del San Carlo che arriva al punto di ‘sequestrare’ Verdi che, alla fine, con un escamotage se ne va rescindendo il contratto e approdando a Roma. Figurarsi: la Roma papalina era più tollerante della repressiva Napoli, chi l’avrebbe mai detto! Il Ballo in maschera vede la luce nel febbraio 1859 all’Apollo di Roma, però anche qui il regicidio non è visto molto di buon occhio, così l’azione si deve spostare addirittura fuori dall’Europa, a Boston in America, e il protagonista ridotto a Conte è il governatore del Massachusetts.
L’opera in questo modo perse molto del suo spessore e della sua drammaticità (si capirebbero certe frasi in bocca a un sovrano assoluto, molto meno in quella di un semplice governatore) e il librettista Antonio Somma pretese che il suo nome venisse tolto dal cartellone. Del resto a quei tempi non si scherzava: il testo di Scribe aveva preso le mosse da un fatto realmente accaduto: Gustavo III di Svezia nel 1792 fu assassinato durante un ballo in maschera e il 13 gennaio 1858 Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III: malauguratamente per Verdi proprio negli stessi giorni in cui a Napoli doveva darsi la sua opera. E questo era un monito per Verdi e tanti altri: il potere meglio non sfiorarlo. Dopo questo preambolo bisogna dire che “Il ballo in maschera” ebbe un discreto successo e fu poi rappresentato sempre con sommo godimento degli spettatori. E magari anche dei giornalisti presenti all’allestimento. I fortunati giornalisti che riescono a farsi concedere uno strapuntino.
Una volta, se si voleva recensire un’opera, o solo più modestamente farne la cronaca, bisognava essere presenti in carne e ossa. Adesso, per fortuna, non è necessario. Per fortuna di chi? si chiederà qualche incredulo. Ma di chi deve sovrintendere alla buona riuscita del lavoro in oggetto, di chi deve diffonderlo nel mondo dei media affinché i media lo diffondano nel mondo. Perché, per fare di queste operazioni, bisogna avere una buona organizzazione, ottimi elementi che la compongano e qualche denaro. Adesso accade sovente che una delle tre cose manchi e a volte anche due, e spesso persino tutte e tre.
Accade a volte che gli uffici stampa non abbiano poltrone sufficienti a ospitare il pennivendolo di turno (ma i vecchi del mestiere sanno che queste sono scuse) e quindi il povero cronista che comunque si sarebbe dovuto finanziarie viaggio, alloggio e anche (come è accaduto per la stagione estiva di Caracalla a Roma) il costo del programma di sala, rimane fuori dallo spettacolo di cui avrebbe dovuto scrivere. Non difettando a questa categoria così negletta dei giornalisti un po’ di ingegno, e venendo in ausilio l’informatica, con meno dispendio pecuniario e energetico, possiamo affermare senza dubbio che il direttore d’orchestra Gianluigi Gelmetti (a Roma sempre apprezzato e anche rimpianto) è stato superlativo, che il cast era di prima scelta, sempre con qualche neo beninteso, e che il pubblico si è divertito a dismisura.
Caterina Renna è nata e vive a Roma. Giornalista e scrittrice ha sempre pubblicato per le pagine culturali (critica letteraria, teatrale e musicale) de 'Il Tempo' e dell'ormai scomparsa rivista 'La dolce vita'. Dopo una tesi di laurea in critica letteraria sul giallista romano, Augusto De Angelis morto in seguito alle percosse inflittegli dai fascisti, si è appassionata a questo genere 'minore' ed ha scritto un romanzo poliziesco ambientato nella capitale (ora pubblicato online da Feltrinelli) dal titolo 'Cronaca di Roma VI pagina', nonché vari racconti pubblicati da Giulio Perrone Editore. Ha ricevuto una speciale menzione per un suo racconto nell'VIII edizione del Premio Nazionale Narrativa Poliziesca 'Orme Gialle' di Pontedera. Si accinge a completare una serie di racconti dal titolo 'Razzismi' molto in tema con gli avvenimenti odierni.