La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

Inchieste » Quali riforme? »

Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Mondi » Oriente »

Birmania: adesso possiamo andare, ma scrivere “sono arrivato” su Internet è un’avventura da 007

24-11-2011

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Birmania - Foto di Javier Martin EspartosaAung San Suu Kyi si candida alle prossime elezioni della Birmania che da tempo si fa chiamare Myanmar per demagogica avversione della giunta al potere con il nome coloniale inglese Burma. La Signora della Birmania si candida e invita i turisti a tornare a visitare il suo Paese. Gli anni passati, si è parecchio discusso, negli ambienti del giornalismo di viaggio da cui provengo, se fosse o meno opportuno accettare inviti da un Paese politicamente isolato,messo all’indice dalla comunità internazionale.

Avevo rifiutato gli inviti a visitare il Sudafrica per tutta la durata dell’Apartheid poiché gli inviti nascondevano l’ovvio veleno della propaganda da inoculare nei lettori più incauti con il pungiglione della penna. In Birmania ci sono stato tre volte, l’ultima nel marzo dello scorso anno. Non avevo ricevuto inviti. Ero stato mandato dal mio giornale. Quindi, nessuno poteva chiedermi nulla e aspettarsi nulla. E non ho dato nulla se non l’entusiasmo per la bellezza del Paese, della sua gente, del paesaggio, dei suoi monumenti, a cominciare dai templi di Pagan e dalle pagode di Mandalay e Rangoon, ribattezzata Yangon dai soliti militari. Una bellezza pittoresca che, bisogna ammetterlo, il più delle volte deriva da una situazione di dura arretratezza. Gli spaccapietre lungo le strade e quelli che battono le foglie d’argento con le forza delle braccia negli antri oscuri delle officine dove fanno shopping i turisti, faranno la felicità dei fotografi amanti del colore, ma sono la testimonianza di condizioni di vita e di lavoro prossime, per non dire coincidenti, con la schiavitù.

Quel che più mi ha colpito è sempre stata la sorveglianza cui sono sottoposti i visitatori, il clima occhiuto che ti senti addosso e ti induce persino a sospettare della guida che ti accompagna e che non hai scelto tu. Nell’ultimo viaggio, per esempio, sono stato ossessionato dalla curiosità della guida che continuava a chiedermi perché visitassi le sponde del lago Inle e mi aggirassi per il Paese da solo, senza essere intruppato in un gruppo e senza un familiare al fianco, nonostante avessi dichiarato di avere moglie e figlia. Perché loro sono a casa e tu sei qui? Dovevo inventare scuse, badando che fossero tra di loro coerenti per non cadere in contraddizione. Va da sé che non avevo dichiarato la vera ragione che avrebbe potuto giustificare quel vagabondaggio solitario. Non l’avevo contata giusta sulla mia professione. Se all’atto della richiesta del visto dici di essere giornalista o ti rifiutano l’ingresso o ti marcano a vista una volta dentro. La prima volta mi ero dichiarato falegname. Le due volte successive, impiegato. Come ebanista avrebbero potuto mettermi alla prova. Come impiegato, la mia competenza era insindacabile.

Fanno da corollario alla sorveglianza, la proibizione di usare Internet e il cellulare. L’isolamento è totale. La prima sera, quando arrivai nel mio albergo di Rangoon provenendo da Bangkok, chiesi al direttore se potessi usare Internet. Volevo far sapere a casa che non mi avrebbero sentito per una settimana. Il direttore, dopo essersi guardato attorno, come se temesse spioni nascosti dietro i tendaggi, e non prima di avere spedito l’impiegata a compiere un’immaginaria commissione, mi consentì l’uso del computer nel suo ufficio. Scrissi un’e-mail a casa e fu l’ultimo contatto con il mondo libero prima di restare vigilato speciale per il resto del mio soggiorno.

La prima volta a Rangoon, e credo che sia stato una quindicina d’anni fa, tentai di raggiungere la casa di Aung San Suu Kyi, meta vietatissima, con uno stratagemma. D’accordo con la direttrice dell’albergo, un’europea, la sola al corrente della mia intenzione, mi feci lasciare dal taxi in un punto strategico sufficientemente lontano dalla casa della Signora, tale da non suscitare sospetti nel taxista. Partendo da lì e dirigendomi verso il mio albergo avrei dovuto passare inevitabilmente davanti alla residenza della scomoda dissidente. Cinquanta metri prima che vi arrivassi, due o tre tizi in ciabatte infradito e senza uniforme, all’ombra di un ombrellone da bar piazzato in mezzo alla strada, mi ingiunsero il dietro front. Mappa alla mano, mostrai a gesti e a parole che quello era il percorso più breve e razionale per ritornare al mio albergo. Non vollero sentire ragioni. Chiesi perché non potessi proseguire oltre su quella strada. Mi dissero che non si poteva e basta. Cominciavano a spazientirsi e a gesticolare sempre più nervosamente per farmi capire che dovevo tornare sui miei passi senza fare storie né altre domande. Se avessi insistito, avrebbero probabilmente mangiato la foglia e avrei forse passato qualche guaio. Ero lì per descrivere le attrattive del Paese, non per assaggiarne le prigioni. Desistetti.

Una volta a casa, scrissi della bellezza della Birmania, che avevo visto, sia a terra sia durante la mia crociera sul fiume Irrawaddy. Raccontai la storia dell’irraggiungibilità della casa di Aung San Suu Kyi. Non mi concederanno più il visto, dovrò attendere il ritorno della democrazia, pensai. Invece sono entrato in Birmania altre due volte. Al di fuori dei confini nazionali la vigilanza birmana fa cilecca.

Proviamo a dare retta ad Aung San Suu Kyi, che i suoi fedelissimi non chiamano più Daw, Signora, ma Mother, Madre. Visitiamo il suo Paese. Cerchiamo di raggiungere la sua casa. Dalla possibilità o meno di riuscirci potremo rilevare lo stato di un Paese che cerca di tornare alla normalità e alla democrazia. Potremo fotografare condizioni di lavoro da denunciare una volta a casa. E comunque godremmo della bellezza che è straordinaria per l’abbondanza della sua arte, la generosità della sua natura e la gentilezza sorridente dei suoi abitanti, così come è spietato con i suoi monaci dissidenti, con gli oppositori e con la sua sfortunata popolazione costretta spesso a condizioni di lavoro disumane. Vale la pena di provare, ora che siamo moralmente autorizzati dalla Signora della Birmania.

Ivano SartoriIvano Sartori, giornalista, ha lavorato per anni alla Rusconi, Class Editori, Mondadori. Ha collaborato all’Unità, l’Europeo, Repubblica, il Secolo XIX. Ultimo incarico: redattore capo a Panorama Travel.

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