Il filosofo Michael Walzer scrive “Per carità fate la guerra” in difesa dei deboli, degli oppressi, di chi non sopporta le dittature feroci. Ma chi stabilisce che Gandhi ha sbagliato e bisogna combattere e seminare “effetti collaterali” (morti innocenti)? Le regole internazionali non valgono più, possono decidere solo le potenze con gli arsenali ben forniti. E in Jugoslavia e in Iraq noi G8 ci siamo messi a sparare senza l’autorizzazione di nessuno
Enrico PEYRETTI – “Gli italiani bombardano per amore”, parole del vescovo generale dei cappellani militari, ma di quale amore si tratta?
18-07-2011Dopo il capitalismo compassionevole e la guerra umanitaria, abbiamo ora anche la guerra caritatevole? Del resto, il vescovo-generale dei cappellani militari italiani disse, qualche anno fa, che i nostri piloti bombardavano la Serbia per amore.
Ora il filosofo liberal statunitense Michael Walzer, ben noto anche in Italia (libri sulla tolleranza, la libertà, il terrorismo, la giustizia, e specialmente su “Guerre giuste e ingiuste”), scrive un articolo (Saturno, 15 luglio, settimanale de Il Fatto Quotidiano, col titolo “Per carità, fate la guerra” e una foto eloquente) che qui riassumo.
L’uso della forza per finalità umanitarie genera sempre qualche sospetto di essere fatto per fini di dominazione, ma ciò non è sempre vero, e dipende anche dal non conoscere bene la situazione di crisi che richiede un intervento. È vero che l’intervento in Libia fu deciso senza rispettare il test della proporzionalità, e che sembra aver prolungato più che fermato i massacri, con poca prudenza e giustizia, ma Usa e Nato non intendono sottomettere la Libia (il petrolio era già disponibile), e hanno motivazioni umanitarie.
Interventi come questo sono da appoggiare, in quanto sono bontà e dovere, carità e giustizia. Gli stati ricchi e potenti devono contribuire in proporzione al loro benessere e potere al bene comune. L’errore del non far nulla è più frequente dell’intervento imperialistico. Le crisi umanitarie sono più spesso ignorate che prese a pretesto per dominare. Molti stati, e non solo le grandi potenze, possono operare come agenti umanitari, perché possono mobilitare cooperanti e soldati. Il Vietnam fermò lo sterminio fatto dai Khmer Rossi in Cambogia, l’India pose fine al terrorismo di stato in Bangladesh, la Tanzania abbatté il regime sanguinario di Amin in Uganda.
Non c’è un agente designato per l’umanitarismo internazionale. Potremmo aspettarci che sia l’Onu a incaricare, sia per interventi militari che per aiuti umanitari. Ma non è prevedibile che possa agire tempestivamente. «Il principio guida è: chi può deve», scrive Walzer, alludendo a quella che oggi viene detta la “responsabilità di proteggere”.
Quel principio-guida non può essere imposto legalmente – continua il filosofo – ma lo impone politicamente l’opinione critica, l’appello morale, talvolta la mobilitazione popolare. E cita i casi del Kosovo, del Rwanda, del Darfur, come differenti effetti di tale pressione.
La combinazione di carità e giustizia, «due in uno», richiede che il soccorso – nutrire gli affamati, fermare i massacri – sia prioritario, ma poi deve venire la riparazione dei torti: nonostante i rischi che comporta, essa è l’obiettivo a lungo termine. Si tratta di costruire nazioni che possano difendere la vita dei loro cittadini e li aiutino a cavarsela da soli. Devono essere progetti umanitari e non ideologici (come furono l’Armata Rossa in Polonia 1919, gli Usa in Iraq 2003, e forse in Libia nel 2011), tesi a costruire lo stato e non a imporre un cambio di regime. Le missioni umanitarie mirano alla riparazione solo dopo il soccorso e allo scopo di sostenerlo.
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A Walzer replica, nelle stesse pagine, col titolo “È la legge del più forte”, Domenico Losurdo, riconoscendogli che il ragionamento è persuasivo ed elegante. Ma ignora la storia: nella prima guerra mondiale sia la Germania sia l’Intesa pretendevano di rappresentare le ragioni dell’umanità. Il caso Vietnam-Cambogia è più intricato, con responsabilità di Urss e Usa. Oggi, le terribili repressioni in Bahrein giustificherebbero l’intervento dell’Iran in difesa degli sciiti?
Walzer ignora la domanda cruciale: chi può giudicare se l’intervento militare-umanitario è necessario?
Si dirà che l’intervento in Libia è stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. Sì, ma è andato ben al di là del mandato. Inoltre, l’Occidente intervenne contro Jugoslavia e Iraq senza nessuna autorizzazione Onu. (Oggi – aggiungiamo – non fa nulla per la Siria massacrata). Usa e Occidente agiscono come un capo di governo che dicesse al Parlamento: datemi la fiducia, ma tanto governo anche senza!
Conclude Losurdo: il paradosso di Walzer, filosofo liberale, è che respinge come formali le norme internazionali affermate dopo la seconda guerra mondiale e si affida a una giustizia sostanziale interpretata in definitiva dai paesi più forti e dalla Nato.
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Mi pare che Walzer commetta alcuni sottili errori: constatata la debolezza dell’Onu e la prevaricazione degli stati forti, sancisce la prima come naturale, insuperabile, e la seconda come soggettivamente buona, “ a fin di bene”, invece di lavorare per accrescere l’autorità dell’Onu, cioè della legge sulla forza, e per contenere la forza dei più forti sotto le regole dell’umanità.
Queste regole sono invocate da Walzer per giustificare l’azione militare, non solo quella economica di soccorso, contro i prepotenti che le offendono entro un popolo e uno stato, ma sono dimenticate quando si dovrebbe sottomettere al diritto internazionale chi agisce in modo arbitrario entro la comunità dei popoli.
Walzer non ipotizza neppure che tra la guerra e l’inerzia si debba cercare la terza via dei corpi civili, o forze nonviolente di pace, progettati e avviati da Gandhi, da Alex Langer, realizzati in limitate ma assai significative esperienze in zone di conflitto (Libano, Iraq, Kosovo, Palestina, Colombia, Guatemala, e varie altre).
Se gli stati e la comunità internazionale, e anzitutto i filosofi della politica, ragionassero con categorie un po’ più ampie che guerra e elemosina, saprebbero leggere nella storia e istituire nel presente interventi efficaci di difesa nonviolenta, di solidarietà, di soccorso, di mediazione, di riconciliazione, di giustizia economica, di costruzione politica nell’autonomia eguale di ogni popolo e civiltà.
La guerra caritatevole fa un bene impregnato di male, dà un pane tossico. Lo sanno i popoli “liberati”, le vittime di quel “bene”, i milioni di profughi sradicati dalla loro terra, le strutture vitali distrutte, e soprattutto lo sanno gli animi e le memorie, ricolme di dolore e corrotte spesso nella volontà di vendetta, o – quasi peggio – nel culto della fatalità della violenza, nell’immagine del mondo come un regno sotto la legge delle armi, dove anche la giustizia è ingiusta. Ma l’umanità non è destinata a questa dannazione.
Enrico Peyretti, intellettuale impegnato nel movimento per la nonviolenza e la Pace. Ricercatore nel Centro Studi “Domenico Sereno Regis” di Torino, sede dell’Italian Peace Research Institute. È membro del Centro Interatenei Studi per la Pace. Fra i suoi libri: “Per perdere la guerra” (Beppe Grande, Torino); “Dov’è la vittoria?” (Il Segno, Gabrielli); “Il diritto di non uccidere, schegge di speranza” (Il Margine, Trento)