Quando ancora le feste laiche di questa Repubblica avevano un senso e sembrava fuori dalla grazia divina fare revisionismo cialtrone approfittando di uno spaesamento politico sempre più dilangante, ricordo un 25 aprile di quanto ero una ragazzina. Si era appena scavalcata la metà degli anni Ottanta, quelli dell’edonismo e del riflusso, e andavo al seguito dei miei genitori nel paese natale di mia madre, ai piedi delle Dolomiti.
Lì, nella casa accanto a quella che occupavamo, c’era una pensione un po’ improvvisata. Un’anziana rimasta vedova del marito e di un tenore di vita che non le apparteneva più, dava camere a gente “perbene” (il “perbene” era affidato al suo insindacabile giudizio) che veniva dalla pianura. Tutti gli anni, per il 25 aprile e poi per ferragosto, arrivava una coppia ormai in là con gli anni. Lui, Angelo, maestro elementare in pensione di Venezia, e lei, Clara, professoressa di lettere alle superiori altrettanto dimissionatasi dal servizio, facevano poco caso all’impianto elettrico non a norma. E nemmeno si formalizzavano per i muri qua e là scrostati o per il bagno in corridoio.
Insomma, le condizioni della pensione prealpina non erano un problema. Cercavano solo un po’ di quiete mentale. E di frescura, quando era estate. Ma cercavano anche qualcuno che li ascoltasse. Così, quando mi incrociavano in giro per il paese, mi chiamavano e sapevano di aver gioco facile con me, che volentieri avrei fatto un salto nel decennio precedente, così “spesso” rispetto alla vuota effervescenza degli anni che hanno caratterizzato la mia adolescenza.
Lui, l’ex maestro, il primo 25 aprile che festeggiò – mi raccontò esattamente 25 anni fa – fu quello del 1948, l’anno in cui l’Italia, fresca ancora di Liberazione e attraversata da grandi cambiamenti istituzionali, conobbe per la prima volta la violenza scelbiana dell’ordine pubblico. E ne restò scioccata. Ancor più scioccato ne restò Angelo, quando lesse delle cariche in piazzale Loreto, a Milano, al termine del corteo antifascista. A sconvolgere Angelo fu l’abiura non tanto di una promessa di pace pronunciata appena tre anni prima, ma il timore che tornasse quanto aveva vissuto fino al maggio 1945, all’interno del lager di Mauthausen.
Eh sì. Perché quell’anziano insegnante elementare era stato deportato in Austria. Motivi politici l’avevano fatto catturare nel tardo autunno 1944 e sapeva di essere stato fortunato. Fortunato perché il suo essere comunista e l’aver rifiutato per tanto tempo la tessera del partito nazionale fascista l’avrebbero potuto far prendere ben prima. Invece si era nascosto bene ed era accaduto a pochi mesi dalla fine della guerra, quando anche tra i gerarchi nazisti c’era ormai la consapevolezza che tutto stava finendo e che il terzo reich sarebbe crollato con loro.
Angelo – mi raccontò quel 25 aprile 1986 – al contrario di molti altri sventurati passati prima di lui per il campo di sterminio austriaco, aveva diritto una volta la settimana addirittura a un cucchiaio di marmellata. E lo diceva con un senso di vergogna, come se fosse stato davvero un privilegiato. Ma le condizioni vagamente più miti rispetto ai primi anni della soluzione finale non gli avevano risparmiato orrori personali. Aveva visto abbattere un deportato come lui alla fine di una giornata in cui era stato costretto a fare il cane da guardia, attaccato a una catena legata all’ingresso del piazzale della baracche. Ormai alienato, non era più adatto neanche a lavorare come un mulo.
E aveva visto il “gioco del domino”. A Mauthausen c’era una cava di pietra e i deportati addetti agli scavi dovevano scendere a braccia scariche per caricarle con enormi massi da portare in alto. Se per qualche ora nessuno s’ammazzava da solo inciampando nei grandini volutamente sconnessi, la SS di turno in cima alla scala dava un calcio allo schiavo giunto in alto che cadeva trascinandosi dietro chiunque gli stesse alle spalle. Poi, chi non crepava doveva rialzarsi, abbandonare momentaneamente la pietra che si era caricato e, anche se ferito, rimuovere i morti.
Ne aveva viste a migliaia, Angelo, di brutalità oltre ogni immaginazione. E a liberazione del campo, gli era venuta una dissenteria che quasi se l’era portato via, come se fosse una longa manus di quei gerarchi tedeschi che non s’erano dati abbastanza pena per annientarlo definitivamente. Ci aveva messo un’eternità il maestro veneto a tornare a casa. C’era arrivato nel gennaio 1948 quando la moglie e i due figli – Flavio e Flavia, avevano lo stesso nome i figli di Angelo – avevano perso le speranze.
Angelo no. Quando giunse a Venezia nutriva la speranza di poter vedere un futuro migliore. E lo vedrà. Ma non subito. Non il 25 aprile 1948, quando la sua mente gli fece fare un salto indietro e il suo fisico cedette a un collasso. E nemmeno negli anni successivi, quando la depressione picchiò duro, altra longa manus del regime persecutorio che l’aveva catturato e schiavizzato. Angelo, nel 1952, cercò di suicidarsi. Non riusciva a interrompere gli incubi, a occhi chiusi o aperti che fossero. E così, giunto a Milano per uno di quei giri che ogni tanto faceva, quando vide un tram si lanciò sotto. L’unico risultato fu una caterva di insulti del tramviere che era riuscito chissà come a fermare il bestione di metallo.
Quello fu il vero inizio di una nuova vita che l’aveva condotto, a metà anni Ottanta, ormai sereno, a cercare un placido 25 aprile sulle alture tra Veneto e Trentino parlando con un ragazzina. Lo cercava placido perché potesse ricordare cos’era stato essere comunista negli anni del Ventennio, essere per questo deportato e abbruttito moralmente, oltre che nel fisico. Voleva silenzio, Angelo, nel celebrare la Liberazione. La Liberazione di un Paese, di un continente e anche la sua. E a ottant’anni suonati nutriva ancora la speranza in un ulteriore miglioramento.
Mi disse quel giorno che dopo la violenza dei Settanta, si sarebbe proceduto a un’estensione della democrazia, del dialogo, del confronto. Ne era sicuro. Angelo è morto nel 1994, pochi giorni dopo il 25 aprile di quell’anno, quando a Milano si tenne un’altra festa della Liberazione. La polizia non caricò, anzi, si diede da fare a tenere lontani i provocatori. Sotto un’acqua fittissima sfilarono migliaia di persone, tra cui chi scrive. E marciarono fradice di pioggia per la democrazia in cui credeva Angelo, ma anche contro un imprenditore che aveva appena vinto le elezioni politiche. Sarebbe stata la prima volta e sarebbe stato il suo primo governo.
Angelo, dopo tutto quello che aveva subito e dopo la forza nel rialzarsi, forse è stato ancora una volta fortunato a morire in quel maggio 1994. Almeno si è risparmiato i diciassette anni successivi. Si è risparmiato l’amarezza per le sue speranze di vecchio deluso. E si è risparmiato anche i manifesti di oggi. Quelli con uno slogan che gli avrebbero inferto l’ennesimo colpo. Quelli che recitano “Basta con la Liberazione”.
Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet,
cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non
necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)