Essere genitore è davvero molto difficile soprattutto quando i figli sono adolescenti, quindi alla disperata ricerca di loro stessi, ragion per cui i genitori rappresentano il primo “ostacolo” da superare in quanto spesso trasformati in potenziali “nemici”.
Ragazzi confusi, inondati da emozioni che non hanno connotazione alcuna, emozioni che fanno male, che spingono verso la consapevolezza, che, come fili manovrati da un burattinaio impazzito, strattonano, tirano, spingono, sbattono. É facile comprendere quanto disagio possa caratterizzare un adolescente, ma diventa molto difficile comprendere “quale”, soprattutto per i genitori.
Nella comunicazione famigliare l’attento ascolto e il dialogo diventano pilastri portanti per favorire una sana crescita, volta al superamento delle barriere adolescenziali ed orientata alla conquista della responsabilità di diventare un adulto consapevole, dotato di criticità, volto al costante cambiamento vitale che caratterizza il mondo adulto.
Comunicare con i propri figli non è un’operazione semplice ed immediata, richiede la consapevolezza e l’umiltà dell’adulto sano che, incuriosito dal mondo ancora nebuloso del figlio adolescente, si apre e vi ci si butta senza paura alla ricerca della conoscenza. É un lavoro quotidiano, un lavoro paziente e spesso pesante ed in aperto contrasto con le necessità che la vita propone nella sua dimensione di normalità.
Oggi i genitori sono piuttosto soli nell’affrontare i loro figli, in passato il passaggio di conoscenze, anche semplicemente dei comportamenti che l’esperienza in qualche modo aveva consolidato nel tempo, avveniva attraverso i genitori che trasmettevano ai figli la genitorialità. Come ci dice il dott. Andrea Fiorenza nel corso di un’intervista a presentazione del suo libro, best seller in Spagna, “Quando l’amore non basta”: la trasmissione della genitorialità si è persa a causa dei mutamenti sociali intercorsi, mobilità, sradicamento ideologico e confusione derivante il più delle volte dall’immane quantità di informazioni circolanti, quantità non sempre corrispondente a qualità, sembrerebbero rappresentare i cardini del mutamento e della deprivazione.
Un tempo si nasceva, si cresceva e a volte si moriva anche nello stesso luogo, nella stessa casa, con i genitori vicini e c’era la trasmissione di quel tipo di modello. Con l’avvento dei fenomeni migratori, la mobilizzazione della famiglia ha provocato gli allontanamenti, quindi la coppia giovane oggi va a cercare il modello fuori dalla famiglia.
A partire dagli anni ’60 il modello famigliare è stato messo parecchio in discussione, per cui anche vivendo con la stessa famiglia comunque il modello veniva messo in discussione
– si tendeva a distruggerlo?
“Sì, di conseguenza quel vuoto è stato riempito dai mass media e si è venuto a creare, dal mio punto di vista, una situazione poco costruttiva in quanto il doversi confrontare con troppe teorie riferentesi allo stesso argomento non crea qualità informativa, ma quella quantità che genera confusione. Il genitore che mi arriva in studio, è un genitore confuso che viene a cercare l’ennesima informazione su come intervenire …”
– quali sono le problematiche che più spesso ti arrivano in studio ?
“Ultimamente sono quelle riferentesi alle regole e … al rapporto con lo studio”
– il rapporto con la scuola ? Cosa ci puoi dire in riferimento ?
“In riferimento alla scuola ciò che io noto ultimamente è che, a differenza di un tempo dove il problema scuola era un problema localizzato allo studente, quindi che gravitava intorno allo studente, adesso invece è un problema dei genitori.”
– Dei genitori ? In che senso ?
“Nel senso che i genitori invadono il campo dei figli perché vogliono una serie di risultati che dal loro punto di vista potrebbero non essere raggiunti senza il loro intervento. Quindi … intervengono affinché i figli studino”
– … c’è una sorta di invischiamento ?
“Sì, in quanto si è come consolidata una sorta di corsa competitiva sociale tesa a proclamare il proprio figlio “bravo”, un figlio che riesca a raggiungere sempre e comunque risultati eccellenti …”
– ma scusa, questo non deresponsabilizza i ragazzi ?
“Assolutamente sì! Aliena loro il rapporto con lo studio perché gli obiettivi non sono più rappresentati da un qualcosa che loro possono raggiungere da soli, e quindi gratificarsi dei risultati positivi eventualmente ottenuti, ma ci sono i genitori di mezzo che il più delle volte non si fermano al rapporto figlio-studio, ma intervengono nelle relazioni, nell’ambito dei rapporti che il figlio ha all’interno del gruppo-classe. Sono genitori molto presenti!”
– con una forte partecipazione emotiva
“che non sempre aiuta, anzi il più delle volte danneggia”
– quando vi è troppa partecipazione emotiva cosa succede nel ragazzo ?
“Succede che il rapporto che ha con lo studio viene alienato; non è più una sua conquista, ma è qualcosa che gli viene imposto da fuori. Ho lavorato su molti casi di genitori che avevano scelto un part time al lavoro per potere seguire i figli nello studio, finendo col farlo diventare un qualcosa di “altro” per il ragazzo che ad un certo punto sentiva di non possederlo più, deresponsabilizzandosi completamente.”
– e il rapporto tra i genitori e gli insegnanti ? Anche questo è inquinato ?
“Anche questo, sì! La partecipazione è qualcosa di positivo, la partecipazione ci vuole”
– però modulata …
“esattamente, una partecipazione che deve essere rispettosa anche dei ruoli e del contesto”
– I ruoli all’interno della famiglia; questo credo che sia un argomento portante l’approccio terapeutico e non solo. Quanta importanza hanno le gerarchie famigliari ?
“Credo siano importantissime”
– la mancanza di sani ruoli intrafamigliari che cosa può determinare nel ragazzo ?
“Confusione”
– confusione! Quindi questi ragazzi praticamente sono sottoposti ad una confusione totalizzante ?
“a messaggi contraddittori, a messaggi che possono generare confusione. Per esempio la relazione tra fratelli: un tempo veniva determinata dai genitori secondo un livello gerarchico in cui il figlio più grande conquistava, anno dopo anno, una certa posizione gerarchica all’interno del gruppo, si sedeva vicino al papà mentre il figlio piccolo sedeva un po’ più lontano … era un po’ un’organizzazione di tipo piramidale che aveva la sua funzionalità perché all’interno del rapporto tra fratelli si veniva a creare una sorta di rispetto, quindi il piccolo difficilmente andava ad aggredire o a squalificare il grande. Il figlio grande, sentendosi riconosciuto all’interno del ruolo, proteggeva il piccolo e i genitori difficilmente si intromettevano all’interno di questo rapporto, se non andando appunto a confermare il ruolo di guida. Questo generava nel figlio maggiore l’acquisizione del ruolo, si sentiva utile all’interno della famiglia”
– anche l’autostima si formava, in qualche maniera
“e al contempo il figlio minore di età, comunque, doveva apprendere che c’erano una serie di tempi necessari all’acquisizione di ruoli precisi all’interno della famiglia, prima, quindi nel sociale”
– aveva un modello di riferimento
“esattamente, oggi invece non c’è differenza tra un ragazzino di 15 anni e un bambino di 6 anni all’interno della stessa famiglia”
– quindi si sono persi completamente i ruoli
“sì, … per questa idea un po’ sbagliata di democrazia all’interno della famiglia… l’idea di democrazia funziona in altri ambiti, ma non all’interno della famiglia”
– che poi non coincide col concetto di democrazia, ma di anarchia, perché se non vi sono dei ruoli ben precisi …
“sì, però l’idea da cui parte un genitore è <<noi siamo una famiglia democratica>>
– è un po’ la confusione nella quale si incorre quando si scambia la libertà per permissivismo; ci sono molte persone che pensano che la libertà sia non dominata da regole, in realtà le regole rappresentano i pilastri portanti della libertà e della democrazia
“assolutamente, le regole determinano, limitano la libertà di ognuno all’interno di una famiglia e forniscono quell’esempio di buona libertà. La nostra vita, d’altra parte, segue questo corso tra libertà e responsabilità. All’inizio, utilizzando una metafora, è come se noi fossimo su un treno che viaggia su delle rotaie dove noi non possiamo fare alcun altro tipo di percorso, di tragitto se non quello determinato da altri, quindi ci sentiamo privati da una certa libertà; da grandi smettiamo di essere una locomotiva e diventiamo un autobus, cioè possiamo liberamente andare dove ci pare, però non lo facciamo perché sappiamo che dobbiamo fare un’insieme di fermate. Questa metafora spesso la utilizzo all’interno delle famiglie per spiegare ai genitori su quale linea sarebbe bene muoversi.”
– Tu utilizzi parecchio le metafore, i racconti all’interno della terapia ? A che servono ?
“Utilizzo molto questo metodo, mi permette di farmi capire meglio, di arrivare al punto senza confusione”
– mi potresti portare un esempio di famiglia che ti porta il disagio di un ragazzino ?
“Una famiglia che ha il problema della conflittualità tra due fratelli.
In quel caso i tentativi che la famiglia tenta di mettere in atto per sanare questa situazione sono un po’ quelli classici: parlare con i figli e farli arrivare ad una condivisione. Quindi fare accettare al grande il fatto che il piccolo possa spadroneggiare perché è piccolo, proteggendolo. Tutte le volte che il piccolo va a disturbare il grande, questo si ribella ovviamente e il fratellino minore corre dai genitori piangendo. I genitori intervengono interagendo con il maggiore di età, credendo di farlo ragionare: “non dovevi, perché lui è piccolo”, invece creano profonda confusione.
Ciò che io faccio in questi casi è, raccontando appunto la metafora della famiglia dei leoni e di come la leonessa intervenga sui cuccioli soltanto nel momento in cui rischiano di farsi del male, lasciandoli liberi di giocare quando invece vanno verso il gioco.
Faccio in modo che la famiglia cominci a prendere distanza da questo tipo di intervento che non va fatto, quindi quando il grande interviene sul piccolo perché è stato disturbato devono lasciarlo fare.
Molti abbandoni famigliari sono determinati da questo. “Nel momento in cui io, individuo, mi accorgo che all’interno di un gruppo non ho più un ruolo e/o il mio ruolo non è confermato, non è più riconosciuto, la tendenza è quello dell’evitamento e della fuga”.
L’idea sbagliata, dal mio punto di vista, è che c’è questo demonizzare la gerarchia.”
– La gerarchia famigliare ha quindi una funzione cardine ?
“Nelle famiglie tradizionali di un tempo si stava molto attenti che vi fosse gerarchia all’interno della famiglia”
– è stata parecchio messa in discussione con gli anni ’70!
“perché questo creava distanza emotiva. Diciamo che l’aspetto negativo sta proprio in questa distanza emotiva, quindi c’è la gerarchia ma al contempo c’è la distanza emotiva. L’affettività non passava come passa oggi dove si assiste all’espressione franca dell’affettività. Oggi si vedono genitori, padri che accudiscono i loro figli, non solo accudiscono, ma sono molto attenti all’aspetto affettivo, emozionale, un tempo no, c’era molta distanza. Poi siamo passati dall’altra parte! Quindi la gerarchia è stata abolita e si è puntato tutto sull’amore, l’amore che viene dato incondizionatamente.
La relazione che osservo nei genitori-figli è una relazione tra virgolette malata proprio sull’aspetto della conquista emozionale, la conquista emotiva. Da una parte ci sono i genitori che danno amore a profusione facendo in modo che passi il messaggio del “ti voglio bene incondizionatamente, puoi farmi di tutto, io continuerò ad amarti!” e quindi sono io che mi devo meritare te! “
– Si sono invertiti completamente i ruoli ?
“Sì, e quindi ecco lo spadroneggiamento dei figli. I figli sanno che qualunque cosa facciano o non facciano i genitori comunque continueranno ad elargire… “
– però… questo non fa felici i figli…
“assolutamente no”
– perché abbiamo bisogno di sentire il piacere della conquista … della responsabilizzazione, è una soddisfazione, non è soltanto un peso la responsabilità… perché senza responsabilità difficilmente si arriverà a percepirsi liberi, o no ?
“Sì, per l’appunto! sono ragazzi … io parlo per quelli che mi arrivano all’osservazione, ovviamente, sono ragazzi ai quali tutto è stato dato tutto in modo gratuito e non controllato”
– che cos’è il controllo in ambito famigliare ? È qualcosa di rigido ? Come lo puoi definire il controllo ?
“Il controllo io lo definisco su una base molto ridotta di richieste genitoriali”
– che incanalano in qualche maniera
“esattamente! Il genitore dovrebbe chiedere non più di 2 o 3 cose: il rispetto verso l’adulto, che si traduce in “l’adulto non viene picchiato, non viene insultato”; l’impegno del ragazzo e non necessariamente nello studio … questo significa che il messaggio che deve passare non è: “tu mi fai felice attraverso i risultati che raggiungi” perché solitamente il genitore tende in questo senso “se tu raggiungi un certo risultato … ecco che io ti premio”, in questo modo torniamo al discorso che abbiamo affrontato prima: lo studio viene alienato. In questo caso la persona non studia perché vuole studiare, vuole raggiungere un proprio risultato nel futuro, ma perché vuole raggiungere il risultato nel presente, cioè il motorino, piuttosto che …”
– anche per i genitori diventa un’arma a doppio taglio …
“sì, perché poi i genitori entrano nella trappola che essi stessi costruiscono. Nel momento in cui io mi impegno come genitore per fare in modo che tu possa raggiungere i risultati scolastici, perché questo mi farebbe felice, nel momento in cui tu non li ottieni, io mi impegnerò affinché tu li possa ottenere e quindi … mi prendo il part time, faccio i compiti al posto tuo e via dicendo…”
– e parte l’invischiamento, e si crea un figlio ideale, quindi … le aspettative, poi inevitabilmente … i pregiudizi … in quanto nel momento in cui si crea una persona ideale è chiaro che partono tutta una serie di condizionamenti, di situazioni mentali che comunque non sono pulite
“a quel punto il genitore mette in gioco la posta di se stesso”
– e il figlio ?
“Il ragionamento è: <<se mio figlio raggiunge questi risultati io posso ritenermi soddisfatto>>
– e il figlio non si sentirà con un cappio al collo ?
“Bé, certo, il figlio si sente estraniato da un qualcosa che dovrebbe essere suo e allora lì ci vuole il controllo lucido del genitore. Quindi … quell’attenzione che mi permette di stabilire quali sono i miei compiti e quali sono i suoi compiti. Il mio compito come genitore (io sono un genitore, oltre che essere un terapeuta) non è quello di fare in modo che mio figlio sia felice, sicuramente è quello di essere felice per ogni cosa che può essere motivo di felicità per lui; il secondo compito è cercare di comprendere che l’impegno, la responsabilità non può passare da me, cioè il fatto che mio figlio sia responsabile e si impegni per un qualcosa non può essere qualcosa che viene indotto dall’esterno, in altro modo si creerebbe un paradosso. L’impegno e la responsabilizzazione per essere tali devono nascere nella persona e affinché questo possa avvenire, io, genitore, devo essere in grado di un passo indietro.
Porto l’esempio della lettura: fa piacere a tutti che i propri figli si avvicinino alla lettura, ma la lettura è qualcosa che ha a che fare con il piacere e, in quanto tale, non può essere indotto dall’esterno. Io non posso fare in modo che a mio figlio piaccia leggere semplicemente dicendo: “leggi, vedrai che ti piacerà”, quello che posso fare è che lui arrivi a scoprire il piacere della lettura stando attento a non alienarglielo, quindi a non essere io a prescriverglielo, a indicarglielo, perché a quel punto lui non lo farà. Quello che posso fare è fare in modo che in casa ci siano sempre libri “
– forse anche il vederti leggere, la dimostrazione è un ottimo insegnamento, non credi ?
“sì, la dimostrazione o semplicemente la curiosità …
lo stesso vale per lo studio: non posso fare in modo che mio figlio ami lo studio semplicemente perché io voglio che lui studi e quindi lo obbligo, ma devo fare in modo che lui tragga piacere dallo studio, scoprendo egli stesso quale può essere il livello di piacere.”
– Non è facile, non è facile
“no, non è facile, ma nemmeno così difficile, credimi: il più delle volte i problemi si formano sulla base dei nostri interventi. Nel momento in cui si insegna ad un genitore ad osservare, a fare qualche passo indietro, i figli, naturalmente, vanno nella direzione nella quale devono andare. Il più delle volte quando prendono delle altre strade è perché c’è un intervento molto pesante, molto forte da parte del genitore.”
– Facendo riferimento alle tecniche che tu utilizzi con i genitori, puoi farci degli esempi per capire meglio ?
“Potrei parlarvi del come tentare di affrontare il problema, spesso proposto, relativo a difficoltà nei confronti dello studio, ho sperimentato su oltre 400 famiglie ottenendo egregi risultati.
Solitamente lo studio viene a concretizzarsi nella relazione genitori-figli: figli che lamentano qualche difficoltà e genitori che intervengono per risolvere queste difficoltà.
Questo aiuto genitoriale invece che risolvere il disagio, tende a perpetuarlo in quanto a quel punto la relazione genitori-figli passa soltanto attraverso lo studio. L’unico modo per giungere ad una soluzione è quello di fare in modo che ognuno torni nel proprio territorio”
– si torna al discorso dei ruoli
“esatto, i ruoli. Faccio in modo che il genitore dica al figlio: “d’ora in poi lo studio sarà affar tuo o qualcosa che riguarderà soltanto te, a noi quello che interessa è che tu almeno un certo periodo di tempo al giorno adempia al tuo impegno. Ti assumerai solo l’impegno di stare mezz’ora, un’ora davanti ai libri indipendentemente dal fatto che tu voglia studiare oppure no, semplicemente dovrai stare lì, davanti ai libri. Come farebbe uno scrittore: non si impone di scrivere le cose più belle, ma si impone di stare lì davanti ad un foglio di carta, poi se le idee vengono … bene, se non vengono.. pazienza.
Il genitore deve fare un passo indietro, quindi lasciare nuovamente il territorio al ragazzo limitandosi a chiedere solamente quel tipo di impegno.”
– Quindi proponi impegni a tempo breve
“esatto, serve a fare in modo che lo studente si riappropri nuovamente dello studio. Viene lasciato libero, a questo punto non c’è il paradosso che “deve” studiare, può farlo, ma può anche non farlo e di solito succede che i ragazzi lasciati liberi, visto che comunque devono passare del tempo dinanzi ai libri, poi si scoprano a studiare.”
– Io sono una mamma, vengo in studio da te lamentando il fatto che mio figlio ha abbandonato la scuola, come devo comportarmi ?
“Innanzitutto certo bisogna cercare di capire qual’è la causa, la motivazione dell’abbandono scolastico e lì… le ragioni possono essere tante, si valuta quindi di volta in volta, di caso in caso.
Di solito, il 50% delle situazioni si risolvono facendo in modo che il genitore accetti questo tipo di decisione da parte del figlio, dicendo: “bene, credo che non ci sia nulla da discutere, hai preso la tua decisione, assumetene la responsabilità; noi ti lasciamo tranquillo”. Per lo più ritornano a scuola perché viene a cadere la relazione conflittuale coi genitori.”
– Cosa si intende per dinamica famigliare ?
“La dinamica famigliare, per come la intendo io, è rappresentata dai tentativi che genitori e figli mettono in atto per cercare di risolvere i loro problemi: noi pensiamo che siano solo i genitori ad avere problemi, ma anche i figli hanno i loro problemi; sono due sottosistemi che cercano di aiutarsi in qualche modo nell’attraversare le loro reciproche fasi di crescita nel corso delle quali ambedue le parti incontrano parecchi problemi . Il genitore nel far crescere i figli e nel crescere egli stesso deve sottoporsi a cambiamenti importanti e spesso problematici, per quanto riguarda il figlio direi che risulta già più immediato comprendere le difficoltà determinate dai cambiamenti”
– di solito verranno da te famiglie assoggettate ad una dinamica famigliare forse un po’ scombussolata … per fare in modo che questa dinamica possa andare incontro ad un cambiamento costruttivo, da dove bisogna passare ?
“Credo proprio che il passaggio obbligato passi attraverso la consapevolezza da parte dei genitori, che un figlio non è un prolungamento di loro stessi. Il figlio è “l’altro” e io genitore gioisco del benessere di questo “altro” aiutandolo, per ciò che sono le mie possibilità, a conquistarlo”
– è il “ti voglio bene”, ossia “voglio il TUO bene”
“è un “mi va bene tutto quello che fai” … se questo rientra nell’ambito della legalità, per cui il fatto che a te piaccia studiare, che a te piaccia leggere oppure no, a me va bene, non è comunque motivo di frustrazione. Quello che invece emerge il più delle volte è che i genitori maturano un’idea di figlio ben precisa ed adesa al loro immaginario indipendentemente dalla realtà. Se questa idea, come spesso, se non sempre, accade, non rientra nel reale, ecco che si apre il conflitto . É difficile fare accettare, oggi come oggi, che un figlio va bene lo stesso anche se invece di portare la media dell’otto, porta quella del sei. Ricordo che quando io stesso ero un ragazzino ai miei genitori comunque il profitto, purché sufficiente, andava bene, pretendevano solamente il mio impegno”
– che ne pensi dell’omologazione del pensiero genitoriale, per non incorrere nel doppio messaggio che sappiamo essere poco educativo ?
“Dobbiamo partire dal presupposto che il sistema “coppia genitoriale” è composta da due persone diverse, con culture diverse, provenienze diverse, formazioni diverse, quindi percezioni del mondo diverse. Ci dobbiamo rapportare, quindi, alle difficoltà che questo insieme deve affrontare per riuscire a raggiungere degli obiettivi, devo ammettere che il più delle volte l’errore che viene commesso è quello di concentrarsi su falsi problemi, del tipo che la coppia debba pensarla allo stesso modo e quindi esprimere azioni unitarie. Accettando il presupposto, a mio avviso indispensabile, del rispetto delle diversità, questo non potrà mai essere possibile, in quanto significherebbe che una componente del sistema genitori dovesse in qualche modo denaturarsi cedendo alle dinamiche dell’altra parte, forse in quel contesto emergente. Sappiamo molto bene quanto e come ci si batta per non cedere nemmeno di un passo, e questa non è una buona cosa, ma nel bene e nel male è così, quindi l’omologazione forzata spesso crea il conflitto”
– tu che cosa suggerisci ?
“Assolutamente l’accettazione della differenza, dinanzi ad un comportamento non conforme alle aspettative di uno dei due genitori, l’altro dovrà evitare di intromettersi lasciando libero il compagno/a di esprimersi e quindi responsabilmente farsi carico delle conseguenze. Del resto l’amore è fiducia reciproca.
Questi atteggiamenti così fiduciosi e costruttivi agiscono sui figli, li rinforzano sull’onda della chiarezza espressa, del tentativo di essere il meno manipolativi possibili. Diventa un modo per insegnare ai figli il valore della realtà. Nessuno squalifica nessuno, tutti i componenti la famiglia hanno e possono esprimere il loro valore, ovviamente sempre nel rispetto di poche e chiare regole comunitarie intrafamigliari: il rispetto, l’impegno, la responsabilità relazionale.
Bisogna sgomberare il campo da un intervento a tutto campo e concentrarsi invece su pochi e piccoli obiettivi. É importante che il figlio si renda conto di non vivere sottoposto ad una sorta di dittatura educativa, ma in una situazione interattiva sorretta da regole chiare e definite, ma non per questo passibili di cambiamento.
Spesso i ragazzi portano una lamentela circa le pressanti, invischianti e decisamente esagerate richieste genitoriali in riferimento alle loro prestazioni, ecco questo è un punto che tendo a sottolineare: poche richieste, chiare e precise, oltre che motivate; in fondo ogni famiglia ciò che ambisce è vivere in un clima di soddisfazione reciproca e non di perenne scontentezza e frustrazione!”
– mi sembra di aver capito che tu preferisci lavorare con i genitori che portano il disagio del figlio, piuttosto che con i ragazzi, per quale motivo ?
“Sì, lo preferisco di gran lungo in quanto, utilizzando come metafora l a fiaba “Alice nel Paese delle Meraviglie”, ci potremmo ritrovare dinanzi ad un’Alice che assume la pozione e diventa grande mentre la “casa” che l’accoglie rimane piccola e questo, a mio avviso, non deve succedere, preferisco far diventare grande la casa e lasciare Alice piccola, perché in una casa grande Lei poi diventerà piano, piano grande. I luoghi che abitiamo ci fanno crescere, per cui se faccio crescere la famiglia, in modo automatico e, secondo l’idea che il ragazzo ha di cambiamento, crescerà anche lui assecondando anche i suoi tempi, i suoi ritmi. Se, invece, porto un ragazzo in terapia, il messaggio che passa è che è lui ad avere dei problemi … posso anche riuscire a farlo diventare grande, ma se poi la “casa” rimane piccola ? “
– È anche un modo per non psichiatrizzarli …
“sì, credo che si debba prestare particolare attenzione a questo aspetto, anche se a volte, non possiamo nasconderlo, risulta indispensabile intervenire direttamente anche sul ragazzo. In questi casi si lavora separatamente e con il figlio e con i genitori al fine di promuovere un’azione di crescita sintonica ed organizzata.”
– la tua terapia su che metodo si basa, su che scuola si basa… se ha una scuola di riferimento ?
“È un mix di conoscenze, l’aria più generale all’interno della quale entrano i modelli che io applico è la scuola di Paolo Alto del Mental Research Institute.
Si parte dall’idea che spesso i disagi non originino dall’individuo isolato, ma piuttosto dall’interazione tra individui. Attraverso la comunicazione possiamo tentare di modificare un po’ i problemi, sia intra che interpersonali. Un approccio psicoterapico breve che tenda ad intervenire sui sintomi focalizzando l’intervento terapeutico sui problemi relazionali responsabili del disagio in essere. Tutti i comportamenti hanno valenza comunicativa poiché, come afferma Birdwhistell, l’individuo partecipa a un sistema globale di interazione.
Applicata alla terapia famigliare questa pratica clinica risulta elastica e maneggevole, si pone come obiettivo la modifica delle relazioni disfunzionali all’interno della comunità famigliare, una sorta di sperimentazione condotta per e con i pazienti al fine di trovare modalità relazionali più adeguate”
– cosa intendi per comunicazione ?
“Il modo che le persone hanno di scambiarsi informazioni per ottenere obiettivi, noi non comunichiamo per nulla … ma perché vogliamo raggiungere degli scopi e quindi ci manipoliamo a vicenda. Un figlio manipola un genitore e un genitore manipola un figlio, non c’è una manipolazione unilaterale.
C’è una vignettina molto simpatica nella quale è raffigurato un ricercatore e una gabbia dove ci sono due topolini; i topolini parlano tra di loro e uno dice all’altro: “hai visto come sono riuscito a suggestionare il ricercatore ? Ogni volta che abbasso questa leva, lui mi da del cibo”, questo è chiaramente e simpaticamente un esempio di manipolazione bilaterale”
-quando, come e perché chiudere una terapia, è vero che bisogna saperla chiudere una terapia ?
Credo sia difficilissimo in quanto rappresenta un momento di separazione, quella dal paziente
“Sì, è molto importante sapere quando chiuderla, occorre prestare molta attenzione, solitamente la richiesta parte dal paziente.
Nell’ambito del rapporto terapeutico si riconoscono due stadi:
nel primo emerge una richiesta di apertura manifesta, diretta: il paziente chiede aiuto
il secondo stadio è meno manifesto, meno diretto in quanto si è creata una relazione importante tra paziente e terapeuta; proviamo a pensare al rapporto di coppia: all’inizio facile mettersi insieme, il difficile è poi separarsi quando la cosa è finita, perché si diventa prigionieri di tutta una serie di paure.. del dopo. Un terapeuta dovrebbe essere in grado di capire, leggendo un po’ tra le righe, quando è arrivato il momento di separarsi, ci vuole appunto quella lucidità che permette di dire “la cosa è finita” e prolungarla rischia di rovinare”
– Se la terapia va oltre quelle che sono le reali necessità rischiamo poi di incorrere in qualche problematica ?
“come in un rapporto di coppia che è andato oltre …si rischia di rovinare gli anni belli se non si chiude nel momento in cui deve essere chiuso, la terapia corre il medesimo rischio”
video intervista al dott. A.Fiorenza
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note bibliografiche:
Laureata in medicina e chirurgia si è da sempre occupata di disturbi del comportamento alimentare, prima quale esponente di un gruppo di ricerca universitario facente capo alla Clinica psichiatrica Universitaria P.Ottonello di Bologna e alla Div. di Endocrinologia dell'Osp. Maggiore -Pizzardi, a seguire ha fondato un'associazione medica (Assoc. Medica N.A.Di.R. www.mediconadir.it ) che ha voluto proseguire il lavoro di ricerca clinica inglobando i Dist. del comportamento alimentare nei Dist. di Relazione. Il lavoro di ricerca l'ha portata a proporre, sempre lavorando in equipe, un programma di prevenzione e cura attraverso un'azione di empowerment clinico spesso associato, in virtù dell'esperienza ventennale maturata in ambito multidisciplinare, a psicoterapia psicodinamica e ad interventi specialistici mirati.
Ha affrontato alcune missioni socio-sanitarie in Africa con MedicoN.A.Di.R., previo supporto tecnico acquisito c/o il Centro di Malattie Tropicali Don Calabria di Negrar (Vr). Tali missioni hanno contemplato anche la presenza di Pazienti in trattamento ed adeguatamente preparati dal punto di vista psico-fisico.
Il programma clinico svolto in associazione l'ha indotta ad ampliare la sfera cognitiva medica avvicinandola all'approccio informativo quale supporto indispensabile. Dirige la rivista Mediconadir dal 2004, è iscritta all'Elenco speciale dei Giornalisti dell'OdG dell'Emilia Romagna e collabora con Arcoiris Tv dal 2005 (videointerviste, testi a supporto di documenti informativi, introduzione di Pazienti in trattamento nel gruppo redazione che oggi fa capo all'Assoc. Cult. NADiRinforma, redazione di Bologna di Arcoiris Tv).