Le passeggiate notturne hanno un fascino tutto loro, taciturno. Stretti in cappotti serrati, sotto la pioggia, oppure cinti dall’afa immobile, a tutti sarà capitato di attraversare la città nelle ore più tarde. E molti si saranno imbattuti in controlli militari che da tre anni a questa parte sono diventati una norma. Soldati in città per la pubblica sicurezza, una scelta che il nostro governo avallò nel luglio 2008 e che da allora non mise più in discussione. Ma sarà proprio necessario?
Quattro Agosto Duemilaotto: l’esercito scende ufficialmente in strada. Non per placare rivolte, sommosse o sassaiole, ma per la volontà politica di trasmettere ai cittadini la presenza, la forza dello Stato. Sei mesi di prova per un progetto che di semestre in semestre sopravvive tutt’oggi, almeno fino al 30 Giugno 2011, come stabilito nello scorso dicembre dal Comitato Nazionale dell’Ordine e della Sicurezza, col benestare del Ministero degli Interni e dei vertici nazionali delle Forze di Polizia. I dati ministeriali dimostrerebbero, infatti, come l’operazione abbia sortito effetti positivi, soprattutto nei mesi iniziali. È infatti difficile (oltre che in sostanza infruttuoso) tentare di recuperare statistiche che dimostrino come quest’iniziativa abbia dato risultati sensibili anche nei mesi successivi o nel corso complessivo dei tre anni di attività.
Tra la gente, il parere sembra diverso da quello dell’accoppiata Maroni-La Russa, e una parola corre spedita e ripetuta: propaganda. L’accusa è chiara e diretta, non si ha alcun timore nel parlare di “una farsa, una sceneggiata”. Di solito, quando si muove critica al governo, c’è sempre un suo sostenitore che giustifica e motiva; stavolta no.
Stefano, di mestiere guardia giurata, è ormai un habitué dei posti di blocco: ogni notte percorre a piedi la stessa strada per rincasare dopo le serate con gli amici e puntualmente, con la pioggia o col cielo sereno, viene fermato ed identificato dalla camionetta dei militari. Un soldato alla guida ed un altro scomodo dietro, un carabiniere nel posto passeggero armato di torcia da puntare in faccia, carta e penna. Anche se i militari si alternano, Stefano ormai li conosce tutti, ma loro non conoscono lui: “Nome? Cognome? Di dove sei? Che fai qui? Hai precedenti?” Chiedere ogni sera alla stessa persona se abbia dei precedenti, almeno che nell’arco di una mattinata un cittadino non abbia commesso reato e sia stato processato e condannato per questo, può suscitare ironia, ma la simpatia è meglio tenersela per sé. Ad essere spiritoso ci pensa già il carabiniere di turno: «Una volta faceva un freddo assurdo – racconta Stefano – e loro da una fessura del finestrino scherzavano e mi dicevano che ero uno cui piace andare a bere la sera. Non avevo toccato nemmeno un goccio d’alcol ma loro ci ridevano sopra, tanto ero io a congelare.» Bisogna specificare che casi del genere capitano solo raramente e che è dovere dei militari porre sempre quelle stesse domande, fingendo di non ricordare il volto che tutte le notti si trovano davanti. Il risultato è una vera e propria sceneggiata, tristemente finanziata da denaro pubblico. «La camionetta percorre sempre le stesse poche strade: è quello il problema. Fingono di controllare la città e invece vigilano solo nelle quattro vie principali dove non accadrà mai nulla, se non che passi io che sono il loro unico passatempo.» Un problema strategico di disposizione dei mezzi e degli uomini. Un limite inaccettabile dato che difficilmente si può credere che le forze dell’ordine non si accorgano di controllare solo aree ristrette e centrali. Allora avanza il sospetto, esplicito ed esplicitato, che le pattuglie agiscano solo nelle zone del centro perché lì hanno maggiore visibilità. Camionette come spot per il governo, come cartelloni mobili in costante campagna elettorale.
Ci sono poi episodi più gravi, avvenimenti in cui i militari sono nel posto giusto al momento giusto, ma fingono di non vedere. A Parma i giovani si radunano in Pilotta, uno storico palazzo circondato da un grande prato, il luogo ideale per rilassarsi nelle sere d’estate, per cantare e suonare. La camionetta ci ronza costantemente intorno, com’è giusto che sia per una zona altamente frequentata. Ma quando la confusione svanisce, restano gli elementi più “esuberanti”, quelli che più si sono dati al bere. Una sera una decina di extracomunitari discutevano in cerchio, nel mezzo uno di loro giaceva al suolo svenuto. Probabilmente era solo vittima dell’alcol, o almeno questo è ciò che avranno pensato i militari passando da lì e assistendo alla scena. Probabilmente non è il caso che tre ragazzi in divisa vadano a disturbare un ben più numeroso gruppo d’immigrati e le loro bottiglie, meglio passare oltre e controllare la ragazza solitaria che passeggia poco più avanti. Sicuramente non è così che dovrebbero svolgere il loro compito.
Ma non è solo una questione di città del Nord o di vigilanza notturna, le stesse scene si ripetono anche al Meridione e sotto la luce del sole. A Catania si possono contare oltre venti esponenti di Polizia, Carabinieri ed Esercito stanziati in Piazza Duomo, la piazza delle piazze, il salotto in cui la città accoglie i turisti. Ed è facile contare gli uomini schierati, giacché proprio schierati non sono: arroccati nell’unico spazio concesso dal sole torrido di mezzogiorno, parlottano sudati tra di loro. Alla mano ancora fogli e penne per segnare nomi, cognomi e carte d’identità. Basta spostarsi di un centinaio di metri, o qualcosa in meno, e delle forze dell’ordine non c’è più traccia. Ad emergere è l’insofferenza alla legge, con tre ragazzini su un solo scooter, o peggio ancora la criminalità che senza timori può dedicarsi allo spaccio. Non c’è dubbio alcuno che quei venti funzionari dello Stato sarebbero più utili in ben altre zone della città anziché in quello striminzito cono d’ombra.
Ciò che quindi lascia perplessi, non è tanto la scelta di dispiegare forze militari in ambito urbano, quanto i modi in cui questo avviene. Benché spesso si possa pensare diversamente, gli italiani hanno – e non perderanno – la capacità di osservare e giudicare, di ragionare con la loro testa, di vivere la città e capirla, senza che nessuna statistica ministeriale possa convincerli a credere in qualcosa di diverso da ciò che i loro occhi hanno costantemente davanti.
Fabio Manenti, siciliano di Ragusa. Dottore in Lettere e studente di giornalismo e cultura editoriale presso l'Università di Parma.