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La Parigina, l’amico del cuore e Charlie Champagne

25-08-2011

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Premessa

In un’intervista di diversi anni fa, Carlo Lucarelli a domanda rispondeva che alcuni delitti irrisolti restano nella memoria collettiva più di altri per una serie di ragioni. Tra cui il contesto generale. Potrebbe essere il caso di Martine Beauregard, uccisa il 18 giugno 1969 alle porte di Torino senza che mai sia stato individuato il colpevole. Ai tempi la storia fece scalpore: senza arrivare al terremoto politico e sociale che nel 1953 seguì l’assassinio di Wilma Montesi, la fine della ragazza di origine francese scosse profondamente gli ambienti ricchi e mondani del capoluogo piemontese. Una realtà che all’apparenza sembrava così vicina a quella ritratta pochi anni prima da Federico Fellini a Roma, ma che, senza scavare neanche così tanto, si rivelava ben più miserabile dietro il suo edulcorato perbenismo.

 

Una ragazza che voleva diventare ostetrica

È un martedì d’inizio estate quando l’afa che cala sulla Pianura Padana non fa respirare nemmeno alle sette del mattino. È già affannato un automobilista che a quell’ora, mentre percorre la statale Nichelino-Stupinigi, poco lontano dall’ippodromo di Vinovo, scorge il corpo di una donna. E lo sono anche gli uomini della squadra mobile di Torino, giunti poco dopo. La vittima ha le gambe sul ciglio della strada, quasi sull’asfalto, il dorso appoggiato su un avvallamento e sul viso segni di un’emorragia dalla bocca. È nuda, addosso solo un orologio e un anello, senza documenti, e ha lividi, graffi e due ferite parallele all’altezza del seno sinistro.

Nel giro di qualche ora quel corpo avrà un nome. È Martine Beauregard, 25 anni, viveva a Torino con la famiglia – padre artista, madre casalinga e tre sorelle – dopo essere nata a Parigi. Negli ambienti della borghesia viveuse è piuttosto nota: bellissima e smaliziata, a 18 anni aveva abbandonato l’idea di fare l’ostetrica per trasformarsi in una mondana, boccone ghiotto riservato a portafogli ben torniti. Nell’ambiente, la chiamavano la Parigina ed era finita tra le lenzuola di industriali, banchieri e playboy dopo aver incontrato quello che credeva l’amore. E invece era solo l’inizio di una carriera fatta di sesso in cambio di abbondante denaro.

Il 17 giugno era stata vista per l’ultima volta da una collega poco prima della mezzanotte mentre saliva su una Fiat 125 bianca. Una faccia sconosciuta, ma il commissario Giuseppe Montesano non ci mette molto a incrociare altre testimonianze e a risalire al primo sospettato. Si tratta di Ugo Goano, coetaneo della vittima, che dice di lavorare nel mondo della finanza e possiede una Dino rossa spider con cui porta a spasso le sue numerose accompagnatrici. Ma di lavorare non ha bisogno, i soldi del padre bastano e avanzato per una vita vissuta tra night club, tabarin e belle donne. E la sera in cui la Parigina scompare per essere ritrovata morta poche ore più tardi ha cenato con lei.

Sul momento tanto basta per farne l’indiziato numero uno e così Goano finisce in galera con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e omicidio. Ma l’uomo ripete la sua innocenza e fornisce un alibi che, seppur non solidissimo, sembra confermare la sua estraneità al fatto: dopo aver salutato la ragazza, se ne va in due locali del centro di Torino. Proprietari e avventori confermano: nel primo rimane fino all’una di notte quando riceve una telefonata che lo fa correre via. Ricompare nel secondo un’ora dopo. Di fatto, l’ora del delitto viene fatta risalire tra l’una e le due del 18 giugno e quei sessanta minuti di vuoto sarebbero stati materialmente sufficienti perché Goano raggiungesse la Parigina e la facesse fuori. Ma rimane comunque improbabile che in quel lasso di tempo il rampollo abbia potuto uccidere, portare fuori città il corpo, cancellare alla bell’e meglio dalla sua auto le tracce del delitto e ricomparire come se nulla fosse. E poi Goano aggiunge, come se fosse un deterrente, di essere innamorato di Martine. Non l’avrebbe ammazzata.

 

Molteplici ricostruzioni e il delitto non si chiarisce

Con questo caso, i neristi ci vanno a nozze: più vicini ai toni da dolce vita che a quelli ormai prossimi degli anni di piombo, i cronisti ricamano sulla vicenda e battezzano Goano con l’appellativo di “amico del cuore” della vittima. Del resto, gli elementi di una storia da eros e thanatos ci sono tutti e ad alimentare le fantasie di reporter e lettori ci si mette anche il referto dell’autopsia, che parla di “graffi su tutto il corpo, come se la vittima fosse stata fustigata con una cinghia dall’estremità acuminata; lividi su entrambe le braccia; tumefazioni ai lati del corpo”, oltre ai due tagli paralleli sul seno sinistro. La causa della morte è imputabile a soffocamento meccanico. E le varie ipotesi formulate sulla dinamica del delitto sono quelle classiche: un festino durante il quale un gioco erotico sarebbe finito male. Oppure, a fronte di un rifiuto della ragazza, la costrizione e di lì la morte. Una morte comunque accidentale, si dice, difficile che si tratti di una ritorsione e di un delitto premeditato.

Per il momento, tuttavia, la posizione di Ugo Goano non si chiarisce del tutto. C’è chi dice di aver visto un’auto come la sua viaggiare sulla statale maledetta fermandosi a più riprese lungo il ciglio. Poi non si spiega perché non si sia presentato spontaneamente alla polizia dopo che i giornali del mattino pubblicano la foto della ragazza ancora senza nome per identificarla. E ancora, saputo del ritrovamento, si dà un gran da fare per far sparire dal suo ufficio e dalla garçonnière qualsiasi oggetto personale di Martine buttandolo poi nella spazzatura insieme alle chiavi del mini appartamento. Senza contare che i rilievi effettuati nel locale e sulla sua auto evidenziano qualche traccia di sangue e una ciocca di capelli scuri, come quelli della ragazza. Per cui, se anche non avesse ucciso lui Martine, per gli inquirenti rimane uno che sa più di quel dice. A questo punto, i giornali parlano del “delitto della Dino Rossa”.

Trascorrono quasi sei mesi senza che le indagini prendano una pista definitiva quando, che se si trattasse di un giallo di fantasia, giunge inaspettata una svolta. È il 5 dicembre quando il commissario Montesano riceve nel suo ufficio una telefonata. A chiamare è Carlo Campagna, 27 anni, figlio dell’industriale Guido che ha accumulato una fortuna vendendo in Italia macchine calcolatrici Comptometer. Il giovane chiede al poliziotto di essere arrestato, è lui l’assassino di Martine e non ne può più di vivere con il rimorso. La fisionomia dell’omicida, nella fantasia dei cronisti, ce l’ha tutta: basso e bruttarello, non riesce a tenere a bada i suoi complessi con i quattrini, anche se ci prova. Alle spalle ha già un matrimonio fallito con la figlia di un’altra danarosa famiglia. Dieci mesi e l’unione, che forse avrebbe dovuto fornirgli una qualche forma di stabilità, salta. Così le notti di Carlo sono scandite da pellegrinaggi da un taba all’altro al fianco di modelle disinibite a cui accende sigarette con biglietti da dieci mila lire. In una perquisizione, la polizia trova dietro il ritratto della ex moglie una descrizione che Campagna dà di sé: «Sono impotente, omosessuale, cornuto, usuraio, avaro, sciocco e vesto male». Nuovo carburante per le penne dei cronisti che fanno del reo confesso “Charlie Champagne”.

 

Qualche indizio e troppi buchi per un colpevole

Una volta agli arresti, l’uomo sembra confermare le prime dichiarazioni della collega di Martine: è la stessa l’ora in cui la ragazza sale sull’auto di uno sconosciuto ed è la stessa anche la marca della vettura, una Fiat 125. Diverso invece il colore dei veicolo, azzurro invece che bianco, e inverosimile la ricostruzione che Campagna fa dell’accaduto. Secondo le deposizioni rese agli inquirenti, avrebbe portato la Parigina a casa sua, ma lei – probabilmente già sotto l’effetto di sostenze stupefacenti – finisce per ubriacarsi e vomita. Ma gli esami tossicologici dicono che Martine non aveva assunto né droga né alcol mentre non avrebbe vomitato perché i resti della cena consumata con l’amico del cuore erano ancora nel suo stomaco quando era stata effettuata l’autopsia.

E ci sono anche altri elementi che non tornano. Carlo Campagna aggiunge che, dopo essere stata male, Martine avrebbe chiesto di poter fare un bagno. Charlie Campagne glielo prepara e la guarda immergersi. Ma la ragazza scivola, batte la testa finendo sott’acqua e lui non la soccorre, la guarda morire stordita senza la forza di tirarsi fuori. Tuttavia nei polmoni della vittima non c’è traccia acqua e il medico legale ribadisce che non si tratta di annegamento, ma di soffocamento. Senza contare che risultano inspiegabili i segni che la giovane ha sul corpo. Insomma, Campagna che vuole? Perché racconta tutte quelle balle? E perché avrebbe assassinato Martine se lei non era che una delle tante prostitute d’alto bordo che lui si portava a casa senza preoccuparsi di nascondere le sue frequentazioni con professioniste del sesso a pagamento?

Per gli inquirenti, Campagna si sta accusando di un delitto che non ha commesso per coprire qualcun altro. Sicuramente qualcuno che appartiene alla borghesia ricca e mondana di Torino e le parole della ex moglie, che descrive l’accusato come un sadico, non fanno cambiare idea al commissario Montesano e ai suoi uomini. Ma chi sta proteggendo Carlo? Forse il padre Guido, si dirà quando l’uomo si suicida con una pistolettata alla tempia qualche giorno dopo l’arresto del figlio, il 14 dicembre. Forse. Sta comunque di fatto che la collega di Martine, il 3 gennaio 1970, durante un complicato incidente probatorio, riconosce in Carlo l’uomo che ha caricato Martine la notte in cui è stata uccisa.

 

Un avvocato giovane e tenace

A questo punto entra in scena un altro personaggio. È l’avvocato di Carlo Campagna, Antonio Foti. Giovane penalista (ha solo 28 anni quando assume la difesa del rampollo torinese), si trasforma in una specie di Perry Mason e inizia un’indagine per proprio conto con lo scopo di scagionare il suo assistito. Per prima cosa chiede la scarcerazione di Carlo: anche se la testimone lo ha riconosciuto, la ricostruzione dell’annegamento dimostra che non ha ucciso lui la Parigina e lo convince a ritrattare la confessione. Secondo la nuova versione, Carlo, assediato dai creditori, aveva bisogno di un escamotage per sfuggirvi e prendersi altro tempo e non gli viene in mente modo migliore che farsi sbattere in galera.

Foti poi fa a pezzi la deposizione di un nuovo testimone. È un ex travestito, diventato da poco donna dopo un intervento a Casablanca, che sostiene di essere l’amante di Campagna e di aver raccolto le sue confidenze. Tra queste il rimorso per aver ucciso Martine. Il legale indaga sul passato del teste, lo costringe ad ammettere di essersi inventato tutto e scova un alibi per Charlie Champagne: due uomini sarebbero rimasti a lungo con lui in un night torinese la notte dell’omicidio. Gli inquirenti storcono il naso davanti al lavoro di Foti e non mollano Campagna, che intanto tenta il suicidio in carcere per – dice – ribadire la sua innocenza. L’avvocato allora chiede e ottiene una perizia psichiatrica secondo cui Carlo è «un mitomane affetto da alcolismo cronico». Poi passa alla testimone chiave e si accorge che i giudici, nel raccogliere la sua deposizione, non l’hanno fatta giurare. Dunque le sue parole non hanno valore.

Charlie Champagne viene rilasciato e in istruttoria è prosciolto per insufficienza di prove. La corte d’appello di Torino conferma e anche Ugo Goano, l’amico del cuore, in giudizio è ritenuto estraneo all’omicidio. A questo punto occorrerebbe ripartire da capo, ma la morte di Martine Beauregard è un mistero e il fascicolo che porta il suo nome non verrà archiviato: resterà un caso senza colpevole e così è ancora oggi.

Antonella Beccaria è giornalista, scrittrice e blogger. Vive e lavora a Bologna. Appassionata di fotografia, politica, internet, cultura Creative Commons, letteratura horror ed Europa orientale (non necessariamente in quest'ordine...), scrive per il mensile "La Voce delle voci" e dal 2004 ha un blog: "Xaaraan" (http://antonella.beccaria.org/). Per Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri - per la quale cura la collana "Senza finzione" - ha pubblicato "NoSCOpyright – Storie di malaffare nella società dell’informazione" (2004), "Permesso d’autore" (2005),"Bambini di Satana" (2006), "Uno bianca e trame nere" (2007), "Pentiti di niente" (2008) e "Attentato imminente" (2009). Per Socialmente Editore "Il programma di Licio Gelli" (2009) e "Schegge contro la democrazia" (con Riccardo Lenzi, 2010). Per Nutrimenti "Piccone di Stato" (2010) e "Divo Giulio" (con Giacomo Pacini, 2012)

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