“Quando pensiamo all’Italia – confessa Marina che oggi ha 41 anni e vive a Reggio Emilia – ci si immagina il paradiso: il sole, i sorrisi caldi di chi ti accoglie, la musica”. Forse non è un caso che quando Eduardo Di Capua compose ‘O sole mio si trovava ad Odessa, in una meravigliosa alba sul mar Nero.
Marina è partita sette anni fa, da un paesino di campagna alle porte di Odessa, per il suo primo viaggio in occidente. Fino a quel momento dell’Italia aveva soltanto sentito parlare, ed era emozionante rimettersi in gioco a 34 anni, sacrificando qualche mese della sua vita per gettare base economiche solide per la sua famiglia: “Era il maggio del 2002 – gli occhi di Marina hanno il colore del cielo, mentre ci racconta la sua storia – fino a quando non sono salita sul “marshrutka” (un taxi furgonato che trasporta tra le 7 e le 10 persone) e sono partita per l’Italia con un visto turistico che mi è costato più di mille euro”.
Quante agenzie hanno lucrato sulla pelle della disperazione, di centinaia di migliaia di donne disposte a sacrificare se stesse per la famiglia: “Fino a quel momento mi dicevo: <Marina, alla fine tornerai a casa per Natale e con quello che sarai in grado di mettere da parte, comprerai un appartamento da mettere sotto l’albero a Misha>. Soltanto quando abbiamo attraversato la prima frontiera mi sono resa conto di quello che avevo fatto, che dietro di me lasciavo mio figlio e tutto il mio mondo”. Si deve fermare qualche minuto, Marina, perché dopo sette anni non è ancora riuscita a realizzare il suo sogno, quello di fare ritorno a casa: “Oggi mi sento di non avere più un paese, mi sento straniera ad Odessa e mi sento straniera in Italia. E’ come se al mondo non esistesse un posto dove poter stare”.
Una sorta di esilio costato caro: oltre mille euro per un visto di ingresso turistico, altri mille euro per comprare il primo lavoro e seicentocinquanta in regalo alla donna che ha fatto da intermediario: “Allora funzionava così, se io ti trovavo un lavoro avevo diritto allo stipendio di un mese, ci sfruttavamo a vicenda giocando sulla disperazione”. Ora non succede più così, grazie anche a donne che, come Marina, hanno iniziato a “regalare” posti di lavoro senza pretendere nulla dalle nuove arrivate.
“Quando sono partita – ci spiega Marina di fronte ad una tazza di thè caldo – un appartamento costava 11mila euro, oggi costa dieci volte tanto e non hai garanzie di consegna”. Anche per questo motivo i sette mesi d’esilio sono diventati sette anni: “Ora è tutto più facile perché ci ho fatto l’abitudine ma prima della regolarizzazione non mi sentivo nemmeno una persona: sono stata tre anni senza tornare a casa, nel frattempo facevo la mamma a distanza con Michele”.
I primi tempi sono i più difficili, quelli in cui senti il cuore battere all’impazzata e ogni giorno ci si addormenta con un groppo in gola: “Ogni notte sognavo di tornare a casa, di essere insieme alla mia famiglia, mi svegliavo di soprassalto e non mi restava che piangere”.
Sono arrivata a Napoli e lì sono stata smistata, come si fa con gli animali, con un furgoncino ci hanno accompagnato in uno stabile dove abbiamo passato la notte: “Avevo paura, paura di essere violentata. Paura di essere finita in un brutto giro. Ma non potevo far altro che avere paura, ero impotente e oramai dovevo aspettarmi di tutto”. Al mattino Marina è stata portata in una famiglia dove preparava da mangiare, faceva le pulizie e metteva a posto il giardino: 550 euro al mese per 9 ore di libertà alla settimana. Marina ha resistito otto settimane, poi ha scelto di cambiare strada e si è diretta a nord, a Reggio Emilia: “Conoscevo delle mie compaesane e mi avevano detto che gli stipendi erano più alti e, a me, i soldi servivano davvero”. Ed è così che ha fatto le valigie, per ringraziarla la famiglia che la sfruttava non le ha nemmeno pagato l’ultimo stipendio.
VIAGGIO
Quando Marina è partita, ha salutato suo figlio con un abbraccio che non voleva staccarsi più: “Era esile, ricordo la sua schiena di bimbo e il suo sguardo: non aveva capito cosa significava quel saluto”. Misha aveva sette anni e mezzo e non era in grado di comprendere cosa avrebbe provato ad avere una madre al telefono.
Marina credeva di riuscire a tornare dopo pochi mesi, una borsa carica di soldi per dare un futuro alla propria famiglia, non avrebbe mai pensato che sarebbero passati tre anni e mezzo prima di ritornare a casa.
“Quando i Ferrari – la famiglia che è titolare del contratto di Marina – mi hanno messo in regola e hanno fatto richiesta del permesso di soggiorno, mi sembrava che il tempo non scorresse più: con quel documento potevo tornare a casa e ogni giorno aprivo la posta, aspettavo il mio biglietto di ritorno”.
Trenta ore su un furgoncino lanciato nel cuore dell’Europa, le autostrade che collegano l’est e l’ovest non sono ancora state terminate ma ogni giorno migliaia di persone le percorrono avanti-indietro per tentare la fortuna. Carichi di merci e carichi di persone, le quattro ruote vengono e vanno per allontanare lo spettro dell’inedia: spesso questo è l’unico rimedio al rimanere a ciondolare in una piazza malandata di una città qualsiasi dell’est Europa.
Marina ha gli occhi lucidi quando ci racconta del suo ritorno: “Sono arrivata nel cuore della notte, quasi non riconoscevo la mia città immersa nel buio, sentivo soltanto la macchina sussultare ad ogni buca nella strada”. La vecchia Zigulì si ferma e Marina vede le luci della sua casa ancora accese, c’è qualcuno che l’aspetta, sale le scale, bussa alla porta e c’è una persona che le apre la porta: “Non l’ho riconosciuto – ci dice – non ho riconosciuto mio figlio”. Tre anni e mezzo trasformano un bambino in un ragazzo e ogni anno sono centimetri su centimetri, si cresce anche quando si hanno solo carezze al telefono. Nessuno scompiglio, nessun abbraccio, c’è un grande silenzio ad accogliere Marina, come se tutto fosse successo senza di lei: “Mi sentivo quasi un’estranea – ci racconta – quando sono entrata ho abbracciato Misha, era la schiena di un uomo, era come se di lui, del mio Misha, riconoscessi soltanto la voce”.
Marina di questo viaggio non può raccontare tutto, per lei è stata come una doccia gelata: “Era come se oramai fosse scontato che io non sarei più ritornata, il mio posto era altrove, le attenzioni che le persone volevano ricevere da me avevano il colore dei soldi. Mi sono ritrovata ad essere una madre e una donna per corrispondenza”. Si, perché per molte famiglie, avere una badante che spedisce tutti i soldi a casa è una manna e ci si può permettere un tenore di vita più alto, di fare la bella vita in mezzo a chi rischia di non avere il pane in tavola.
Soltanto con il tempo, con il tornare a casa sempre più spesso, si sente che i rapporti riprendono ma con dei vuoti che lacerano dentro: “Un’amica ha saputo della morte del padre soltanto quando è arrivata a casa. Si erano sentiti tre settimane prima e Alina aveva detto a suo padre che al ritorno avrebbe preparato del borsh caldo con la panna acida immersa sul fondo del piatto”. Quando è entrata a casa, ha passato la serata con suo figlio e hanno guardato delle foto di famiglia, c’era un album che lei non aveva mai visto: era quello del funerale di suo padre, morto di crepacuore quindici giorni prima. “Ci si rende conto – confessa Marina – di tutta la vita che si perde. E’ come se il nostro tempo non ci appartenesse più”.
MI CHIAMANO BADANTE
Insieme ad un gruppo di amici abbiamo deciso di andare in Ucraina. Siamo saliti con Marina sul marshrutka a mezzanotte. Trenta ore per attraversare l’Europa.
Quella era la cortina di ferro, quella parte del mondo dove abitavano i “cattivi”. Marina al confine con la Slovenia ci racconta: “Per una badante il momento più bello della giornata è quando deve portare via il pattume”. Sembra una barzelletta e invece: “E’ l’unico momento quotidiano in cui siamo libere. Cinque minuti in cui siamo sole e possiamo andare in giro per strada senza doverci preoccupare di accudire qualcuno. Che ci sia bello o brutto tempo, ci si sgranchisce le gambe e si guarda il cielo”.
Oggi Marina non ha più paura del ritorno, ma nel viaggio ci confessa quello che nasconde nel suo cuore: “In dieci anni sono diventata nessuno – sussurra mentre le quattro ruote attraversano il cuore d’Europa – io ero un’insegnante di matematica ed ora sono una badante e nessuno mi ha mai chiesto di controllare i compiti dei loro figli: in Italia siamo buone soltanto a far la compagnia”. Marina ha molte amiche che nel suo paese erano dirigenti scolastici, impiegate in Comune, responsabili di agenzie di viaggio e anche qualche donna impegnata in politica.
Badanti, un nome che gli è stato incollato addosso e che non vuole dire nulla, tanto che quando tornano a casa, nessuno riesce a capire che cosa fanno: “Delle volte i nostri compaesani pensano che noi facciamo la bella vita – aggiunge Marina – che in Italia giriamo tutto il tempo, facciamo le turiste e che stiamo tutto il giorno a riposare”. Forse tra qualche anno queste donne torneranno a casa e porteranno con sé alcuni sapori della cucina italiana ma potranno anche raccontare la loro personale odissea, il problema è che Itaca appare ancora molto lontana.
Passano le ore e il viaggio è interminabile. Quando arriviamo alla frontiera Ucraina, Marina ci racconta che spesso le guardie di frontiera chiedono 50 o 100 euro all’autista: “Vedi quelle ville? Sono quelle che si costruiscono con le tangenti – dice Marina – Ora ogni volta che torno a casa mi guardo intorno e vedo che non sta migliorando nulla: vorrei che i soldi che mandiamo a casa fossero utilizzati per migliorare il nostro paese ma non cambia mai nulla”.
Se il ritorno a casa non è facile, non lo è nemmeno ripartire per l’Italia: “Una volta – aggiunge Marina – il viaggio è durato 54 ore: gli austriaci non facevano più passare nessuno, fino a quando ci hanno fatto scendere dal pull man e ci hanno messo in fila, come se fossimo in un campo di concentramento. Ci hanno fatto aspettare due ore al freddo e poi ci hanno controllato i documenti”.
Marina l’abbiamo salutata poche ore dopo essere arrivati ad Odessa. La direzione del nostro viaggio era Ternopil, una cittadina ucraina dai toni dimessi, dove il sabato pomeriggio le chiese si riempiono di coppie di giovani sposi, con tutta probabilità anche questi diventeranno matrimoni a distanza. Giovanna è tornata a casa da qualche anno ed è stata la badante di mia nonna, non ce la faceva più a stare lontano dai suoi figli così l’ha sostituita Alina, sua sorella.
Le avevo promesso che prima o poi sarei passato a trovarla. Giovanna è stata la prima straniera che ha dormito in casa nostra, ed è stata la persona che ha permesso di affrontare le contraddizioni dello sfruttamento. Giovanna abita in un appartamento in un blocco della periferia di Ternopil, nella sua casa ci sono giornate intere in cui non scorre l’acqua corrente e, per questo, nel bagno c’è una cisterna che serve per lavarsi come per cuocere la pasta. Quando c’è acqua, quella calda scorre tra le sette e le nove, la mattina e la sera, durante l’inverno bisogna essere puntuali se non si vuol morire dal freddo.
Per Giovanna gli stranieri sono un dono di Dio. Ci accoglie offrendoci il meglio che ha e, l’ultimo pranzo prima di ripartire, ci compra un “quartino” di cognac: “Serve per affrontare il viaggio – dice Giovanna – così non avrete freddo e dormirete senza sentire gli scossoni del pullman”.
Dietro agli occhi di queste donne dell’est si nascondono gli stessi sacrifici e le stesse storie delle mondine, delle donne che partivano verso le grandi città e facevano le governanti. Soltanto che questi viaggi sembrano delle condanne, tanto da far rimpiangere quando si veniva mandati in Siberia, perché almeno lì eri costretto a restarci.
Non sono mai riuscito a fare la domanda più semplice. Ne’ a Marina, a Giovanna o a qualsiasi altra donna che mi ha parlato di sé durante questo viaggio. Forse perché quegli occhi trasparenti che ti scrutano e che penetrano in profondità, rispondono già a ogni domanda, forse perché quegli occhi scolpiscono immagini di profonda nostalgia.
A tutte le donne che in questi anni hanno varcato i nostri confini, chi legalmente, chi nascondendosi all’interno dei pullman, chi attraversando fiumi e montagne, a tutte queste donne vorrei chiedere: “Se potessi tornare a quel giorno, in cui hai salutato i tuoi cari e sei partita. Se avessi la possibilità di salire sulla macchina del tempo e tornare a qualsiasi giorno del tuo passato e, lì, ricominciare… Rinunceresti a comprendere fino a dove può spingerti l’amore?”.
“Quando pensiamo all’Italia – confessa Marina che oggi ha 41 anni e vive a Reggio Emilia – ci si immagina il paradiso: il sole, i sorrisi caldi di chi ti accoglie, la musica”. Forse non è un caso che quando Eduardo Di Capua compose ‘O sole mio si trovava ad Odessa, in una meravigliosa alba sul mar Nero.
Marina è partita sette anni fa, da un paesino di campagna alle porte di Odessa, per il suo primo viaggio in occidente. Fino a quel momento dell’Italia aveva soltanto sentito parlare, ed era emozionante rimettersi in gioco a 34 anni, sacrificando qualche mese della sua vita per gettare base economiche solide per la sua famiglia: “Era il maggio del 2002 – gli occhi di Marina hanno il colore del cielo, mentre ci racconta la sua storia – fino a quando non sono salita sul “marshrutka” (un taxi furgonato che trasporta tra le 7 e le 10 persone) e sono partita per l’Italia con un visto turistico che mi è costato più di mille euro”.
Quante agenzie hanno lucrato sulla pelle della disperazione, di centinaia di migliaia di donne disposte a sacrificare se stesse per la famiglia: “Fino a quel momento mi dicevo: <Marina, alla fine tornerai a casa per Natale e con quello che sarai in grado di mettere da parte, comprerai un appartamento da mettere sotto l’albero a Misha>. Soltanto quando abbiamo attraversato la prima frontiera mi sono resa conto di quello che avevo fatto, che dietro di me lasciavo mio figlio e tutto il mio mondo”. Si deve fermare qualche minuto, Marina, perché dopo sette anni non è ancora riuscita a realizzare il suo sogno, quello di fare ritorno a casa: “Oggi mi sento di non avere più un paese, mi sento straniera ad Odessa e mi sento straniera in Italia. E’ come se al mondo non esistesse un posto dove poter stare”.
Una sorta di esilio costato caro: oltre mille euro per un visto di ingresso turistico, altri mille euro per comprare il primo lavoro e seicentocinquanta in regalo alla donna che ha fatto da intermediario: “Allora funzionava così, se io ti trovavo un lavoro avevo diritto allo stipendio di un mese, ci sfruttavamo a vicenda giocando sulla disperazione”. Ora non succede più così, grazie anche a donne che, come Marina, hanno iniziato a “regalare” posti di lavoro senza pretendere nulla dalle nuove arrivate.
“Quando sono partita – ci spiega Marina di fronte ad una tazza di thè caldo – un appartamento costava 11mila euro, oggi costa dieci volte tanto e non hai garanzie di consegna”. Anche per questo motivo i sette mesi d’esilio sono diventati sette anni: “Ora è tutto più facile perché ci ho fatto l’abitudine ma prima della regolarizzazione non mi sentivo nemmeno una persona: sono stata tre anni senza tornare a casa, nel frattempo facevo la mamma a distanza con Michele”.
I primi tempi sono i più difficili, quelli in cui senti il cuore battere all’impazzata e ogni giorno ci si addormenta con un groppo in gola: “Ogni notte sognavo di tornare a casa, di essere insieme alla mia famiglia, mi svegliavo di soprassalto e non mi restava che piangere”.
Sono arrivata a Napoli e lì sono stata smistata, come si fa con gli animali, con un furgoncino ci hanno accompagnato in uno stabile dove abbiamo passato la notte: “Avevo paura, paura di essere violentata. Paura di essere finita in un brutto giro. Ma non potevo far altro che avere paura, ero impotente e oramai dovevo aspettarmi di tutto”. Al mattino Marina è stata portata in una famiglia dove preparava da mangiare, faceva le pulizie e metteva a posto il giardino: 550 euro al mese per 9 ore di libertà alla settimana. Marina ha resistito otto settimane, poi ha scelto di cambiare strada e si è diretta a nord, a Reggio Emilia: “Conoscevo delle mie compaesane e mi avevano detto che gli stipendi erano più alti e, a me, i soldi servivano davvero”. Ed è così che ha fatto le valigie, per ringraziarla la famiglia che la sfruttava non le ha nemmeno pagato l’ultimo stipendio.
[nggallery id=1]
Gianluca Grassi è coordinatore del Portale Giovani di Reggio Emilia. Si è occupato di giornalismo, comunicazione e associazionismo, è tra i fondatori della televisione di strada Telecitofono e dell'associazione Gabella che ospita la Scuola di Etica e Politica Giacomo Ulivi. Ha curato Madreperla. La casa che non c’era per Diabasis.