È la seconda volta che salgo a Reinswald (San Martino), in val Sarentino, per incontrare Franz Thaler, artigiano. La sua casa si trova all’inizio della salita che porta al paese. In macchina da Bolzano ci si mette una mezz’ora. La prima volta mi accolse nella sua bottega e mi mostrò i prodotti della sua arte: portachiavi, portafogli, stivali…
Oggi l’appuntamento è all’osteria dove Franz scherza e gioca a Watten (un gioco di carte tipico di queste zone) con gli amici. È domenica e in queste valli la gente esce di casa con i costumi tradizionali. Le donne portano il Dirndl, un vestito con una camicetta bianca dalle maniche a sbuffo, stretto in vita, che scende largo ed è coperto da un elegante grembiule colorato. Sulle spalle portano un foulard con i colori del paese di provenienza. Gli uomini indossano una giacca di lana, ricamata, molto calda, e pantaloni neri, eleganti. Franz porta un cappello con un nastro verde di feltro e una cintura decorata con piume di pavone intrecciate. Parla in dialetto tedesco strettissimo, ma ha un sorriso che dice più delle parole. Con gli occhi è capace di confermare le tue idee. Le gambe gli tremano un po’, ma sta diritto in piedi. È magro, filiforme, con le guance che arrossiscono facilmente. Franz è timido e si commuove quando pensa alla sua storia di deportato nel campo di sterminio di Dachau. «Ich bin nur ein kleiner Mensch», io sono solo un piccolo uomo, dice come per mettere le mani avanti.
Questo piccolo uomo ha vissuto una storia grande e coraggiosa. Nel mare dei sommersi, Franz si è salvato. Era il 1944 e il piccolo artigiano, appena diciottenne, ricevette la cartolina di precetto delle SS. Gli veniva ordinato di presentarsi il primo di giugno al reggimento di polizia di Silandro. Thaler aveva ascoltato il racconto di alcuni amici che gli avevano parlato del carattere violento e persecutorio del regime e così prese la decisione di fuggire sui monti intorno al suo paese, trovando rifugio nei fienili: «Conoscevo palmo a palmo i boschi di Sarentino» racconta. Ma quei quattro mesi passati a nascondersi furono tremendi, anche se ora può perfino scherzarci sopra: «Di notte giravo in cerca di cibo e nei masi c’erano persone che mi aiutavano con qualche pezzo di carne e un po’ di verdura. Un giorno, camminando nel bosco, mi sono sentito chiamare da due persone che mi conoscevano. Mi sono avvicinato. Erano delle guardie naziste che controllavano i dintorni di una malga per scovare possibili disertori. A un certo punto mi feci coraggio e chiesi loro: “Cosa fate da queste parti?”. Erano imbarazzati perché avevano un appuntamento in un maso con due ragazze… Per questo motivo mi hanno lasciato andare».
Franz ordina mezzo litro di vino rosso: «Non posso farne a meno – ride – è come una medicina, mi fa stare meglio». Perde il filo del discorso ma lo recupera presto: «Ah, sì, la fuga nei boschi. Furono lunghi quei mesi. Fuggivo dai nazisti che mi cercavano dappertutto. Vivevo come un animale selvatico, facevo attenzione ad ogni più piccolo rumore, cucinavo quello che trovavo fra le pietre del bosco, ma un bel giorno venni a sapere che i nazisti erano venuti a casa per cercarmi e avevano minacciato la mia famiglia dicendo che se non mi fossi consegnato avrebbero deportato i miei fratelli in un campo di concentramento. Allora mi lasciai catturare, dopo che un mio cugino aveva messo i soldati sulle mie tracce. Ma lo feci solo per amore dei miei genitori che mi supplicarono di arrendermi».
Franz iniziò il suo viaggio all’inferno. Fu condotto a Silandro, in un centro di indottrinamento per le giovani reclute, ma dopo due mesi fu trasferito a Bolzano per essere processato per diserzione. Fu condannato a dieci mesi di internamento. Venne quindi caricato su un carro bestiame diretto a Dachau, ma i bombardamenti alleati resero il viaggio difficile e il carico di condannati fu costretto a una sosta nel carcere di Innsbruck. Ricorda quella notte drammatica, dilaniata dalle bombe aeree degli alleati: «I muri tremavano, il rombo degli aerei era continuo, si sentivano le deflagrazioni, sembrava che la terra fosse stata colpita da un terremoto».
L’arrivo a Dachau fu terribile. Franz parla con un filo di voce: «Prima di entrare nel campo salutai il brigadiere che mi aveva accompagnato in treno. Poi mi ordinarono di togliermi i vestiti, venni completamente rasato ma in realtà molte ciocche di capelli mi vennero letteralmente strappate con le mani, poi fui fotografato da tutti i lati. Subito dopo mi interrogarono a lungo. Ricordo bene che mi chiesero se ero cattolico. Risposi di sì e allora i soldati risero e dissero con rabbia: “D’ora in avanti imparerai un altro tipo di preghiera!”. Mi consegnarono un paio di mutande e una camicia. Mi guardai allo specchio: non ero più io, ero un altro. Non mi riconoscevo ed avevo paura». I disertori non erano come gli altri internati. Anche la divisa era diversa: «Noi non avevamo l’abito a righe, avevamo una uniforme militare in cui c’erano, ben visibili, due lettere: KZ [Konzentrationslager, ndr]».
Franz ricorda di essere stato trasferito, qualche settimana più tardi, in un altro campo di concentramento: «All’inizio avevo capito che mi avrebbero trasferito a Innsbruck, poi compresi che si trattava di Hersbruck, un campo vicino a Norimberga. Ma la vita era la stessa. Mi fecero lavorare nel cantiere edile che aveva il compito di costruire nuove baracche per i detenuti. Pregare era l’unico conforto. Fu in quella situazione che capii il motivo per cui molti detenuti si erano suicidati». Resistette. Quando gli americani lo liberarono era allo stremo delle forze, venne trasferito in un campo di raccolta in Francia: «Mi lasciai andare, mi abbandonai a Dio. Mi distesi a terra, non mi interessava più nulla. Fu proprio in quella condizione che due uomini mi sollevarono in piedi. Erano due fratelli della val Passiria, mi dissero che dovevo sforzarmi, che dovevo tirarmi fuori dal torpore perché altrimenti sarei morto. Avevo trovato i miei angeli custodi».
Franz tornò a casa il 19 agosto del 1945. Pesava trenta chili. Era uscito dall’inferno, era un sopravvissuto. Oggi si appassiona ancora di politica e di tanto in tanto conduce i ragazzi delle scuole in visita a Dachau: «La prima volta mi fermai davanti al cancello. Non riuscivo ad entrare. Era più forte di me. Mi tremavano le gambe. Avevo il terrore che la storia potesse riapparirmi con la spietatezza di quel tempo. Mi feci coraggio e superai la paura di quel cancello che nella mia mente si era fissato come il passaggio dalla vita alla morte. Entrai nel campo, ma non era più lo stesso. Era diventato un museo. Poi sono tornato altre volte con i pullman degli studenti. Ma i ragazzi di oggi faticano a capire quello che davvero è stato, quello che davvero abbiamo vissuto noi che in quelle baracche abbiamo sofferto e visto morire tanti prigionieri. A volte leggo sui giornali che ci sono giovani che si rifanno al nazionalsocialismo e che ci sono ancora persone che hanno nostalgia del fascismo, ma io credo che quel passato non tornerà mai più, almeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuto».
Franz ha perdonato tutti coloro che gli hanno fatto del male. Ha perdonato anche un giovane della sua valle che qualche anno fa l’ha schiaffeggiato davanti a tutti nell’osteria del paese. Nella sua testa, Franz era un traditore, un Walsche, aveva disobbedito al richiamo tedesco, della grande Germania. «Ma dopo qualche giorno ci siamo dati la mano» sdrammatizza Franz. Così accadde il giorno in cui tornò a casa, a guerra finita, e incrociò il cugino che l’aveva consegnato ai nazisti: «Non sapevo cosa fare – ricorda – non sapevo se cambiare strada o fare finta di niente. Ma ci siamo dati la mano e allora capii immediatamente che avevo già perdonato». Però continua a parlare chiaro, tanto del passato che del presente politico, e a dire le verità pericolose che gli altri tacciono. «Io posso perdonare – prosegue Thaler – ma dimenticare non ci riesco. Chi ha vissuto quella tragedia, come può dimenticare? Per voi quello che è accaduto è inimmaginabile. È per questo motivo che sento come un dovere il fatto di raccontare. Scelte come la mia erano delle eccezioni. Molti non osavano opporsi. Era molto più facile seguire la massa piuttosto che essere contro e rimanere isolati. Io stesso sono stato chiamato vigliacco, mi hanno detto che non ero un uomo perché non volevo arruolarmi nell’esercito. Era molto difficile percorrere questa strada perché si era soli. Non solo mancava alla gente il coraggio di opporsi, ma in un certo modo si pensava che quella guerra, e quindi l’essere arruolati nell’esercito, fosse una cosa giusta. Oggi ricordiamo Josef Mayr-Nusser, ricordiamo Franz Jägerstätter. Ma eravamo davvero pochi».
Francesco Comina (1967), giornalista e scrittore.
Ha lavorato al settimanale della diocesi di Bolzano-Bressanone "il Segno" e
ai quotidiani "il Mattino dell'Alto Adige" con ruolo di caposervizio e a
"L'Adige" di Trento come cronista ed editorialista. Collabora con quotidiani e
riviste in modo particolare sui temi della pace e dei diritti umani. È stato
assessore per la Provincia di Bolzano e vicepresidente della Regione Trentino
Alto Adige. Ha scritto alcuni libri, fra cui "Non giuro a Hitler. La
testimonianza di Josef Mayr-Nusser" (S. Paolo), "Il monaco che amava il
jazz. Testimoni e maestri, migranti e poeti" (il Margine), con Marcelo
Barros "Il sapore della libertà" (la meridiana) e con Arturo Paoli "Qui
la méta è partire" (la Meridiana). Con M- Lintner, C. Fink, "Luis
Lintner. Mystiker, Kämpfer, Märtyrer" (Athesia), traduz. italiana "Luis
Lintner, Due mondi una vita" (Emi). Ha scritto anche un testo teatrale "Sulle
strade dell'acqua. Dramma in due atti e in quattro continenti" (il Margine).
Coordina il Centro per la Pace del Comune di Bolzano.